Il continente africano, un sogno di spazi e ampie radure; un universo frammentato in cui culture, lingue, culti si incrociano, tessendo un mosaico spaesante, spesso sofferente, muto. Nella sua rappresentazione immaginaria scopriamo le trame di un’esistenza smarrita, plurale, incandescente e la volontà di ripercorrere la Storia, per tracciare le coordinate di un nuovo sé, che ci invita a prendere le distanze dalla mitologia moderna, per ribadire una stratificazione sociale, culturale, politica, presente e passata, che incanala l’attenzione verso legami a lungo raggio che hanno aperto fratture ancora difficili da sanare. Dopo la fine della colonizzazione europea, nella riterritorializzazione che il continente si è trovato a vivere, emerge la sua difficoltà di ricostruirsi integralmente, parallelamente allo spettro di nuove scissioni dovute alla contraddizione tra seduzione e repulsione nei confronti dell’occidentalizzazione. Dall’alternanza tra disagio e vitalità, si fanno strada una varietà di poetiche espressive, che interessano i campi dell’arte, della moda e del design, e che registrano un nuovo respiro cosmopolita, dovuto anche all’interferenza col pensiero postmoderno, in cui i termini di ridefinizione della soggettività si orientano verso le nozioni di alterità, globale, locale, e lo svuotamento di concetti come centro e periferia.

Mombasa, Kenya. Photo: Harshil Gudka.

Nozioni ormai inadeguate, soprattutto se confrontate con la potenza dell’“essere erratico”, col suo processo di negoziazione in divenire. In ciò la particolarità e la difficoltà di comprensione di questa geografia, più mentale che territoriale, disseminata e dispersa in intrecci culturali che mettono in crisi ogni pretesa di schematismo identitario. La condizione di erranza, di cui fisicamente e concettualmente il continente africano si fregia, mette in luce la spinta verso la decostruzione della visione stereotipata di se stesso e lo slancio volto a iscrivere il proprio sé entro un processo che sfalsa i tempi della cultura e della Storia. Se infatti l’Oriente, secondo la visione di Edward Said, viene inteso come controparte mentale e fisica dell’Occidente e invenzione di un’Europa egemone, il suo sistema erratico rappresenta il flusso carsico in grado di rovesciare tale costruzione, interrompendo l’imposizione di immagini stereotipate, provenienti anche dall’industria culturale contemporanea.

Samburu National Reserve, Kenya. Photo: Harshil Gudka.

La spinta verso la decodifica dello stereotipo culturale svela il fascino di un sé parziale e frammentato, che fluttuando tra déracinement coloniale e enracinement postcoloniale si inserisce nella costellazione di possibilità determinate da: migrazione, nomadismo, diaspora, esilio, reinserimento. Dentro questi grovigli di socialità diffusa e polverizzata, l’appartenenza viene plasmata da un rinnovato e cosciente interesse per la dimensione relazionale. Di tutto ciò si parla in Bleu – Blanc – Rouge, romanzo scritto dal congolese Alain Mabanckou e pubblicato nel 1998, in cui viene analizzato il rapporto esistente tra la diaspora congolese e le influenze europee che hanno generato il fenomeno della Sape (Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes). Originatosi tra Parigi e Brazzaville dagli Anni Venti del Novecento a oggi, con le sue modalità di riflessione e performance identitaria centrate sul culto dell’apparenza e dell’ostentazione, promuove un nuovo orientamento ai consumi che, al di là della semplice assimilazione, può essere letto nella direzione di una nuova interpretazione di antichi sistemi simbolici. A monte di questo rinnovato fasto troviamo, infatti, nell’Africa centrale precoloniale, una diffusa importanza assegnata all’apparire, che si pone come filo conduttore, da un lato, della definizione del legame esistente tra l’abito inteso come mezzo di rappresentazione del sé e l’impatto sociale dell’abbigliamento in epoca coloniale, e dall’altro, della mutazione estetica promossa a Kinshasa e Brazzaville e nelle principali metropoli europee (Parigi, Londra, Bruxelles) dal fenomeno, inteso anche come tentativo di reinvenzione della memoria collettiva.

Mombasa, Kenya. Photo: Harshil Gudka.

Con lo slogan “Je sape, donc je suis” esso punta all’appropriazione e all’esibizione dei segni distintivi del successo occidentale, le griffe di moda, e verso un universo ludico e alternativo in cui siano possibili riscatto sociale, reale o solamente apparente, evasione dalle frustrazioni quotidiane e storiche, e ridiscussione delle radici etniche alla luce delle nuove abitudini di vita della contemporaneità. La condizione di precarietà fa solo da sfondo al riso ironico e al portamento elegante dei sapeur, tanto nelle zone centrali e periferiche delle città (a Parigi li troviamo a Belleville, a Barbés, nella Goutte d’Or e nei quartieri sulla riva destra della Senna: Gare de l’Est, Château d’Eau e Château Rouge) quanto in mezzo alla polvere dei villaggi africani, dove vestono alla francese, con completi, camicie, cravatte, occhiali, guanti neri e bastoni da passeggio, e competono in eleganza a colpi di tessuti costosi, Dutch wax (soprattutto indossati dalle donne) e scarpe laccate, dimostrando la loro strategia di integrazione e di penetrazione dei processi di modernizzazione, contraddistinta da nobile distacco, senso dello humor e volontà di sognare. “Penso che la Sape sia qualcosa di molto importante – spiega a tal proposito un sapeur – in un ambiente in cui i cittadini cercano un po’ di speranza e invece non trovano nulla per credere nel futuro. Dobbiamo darci dei sogni: l’atmosfera, la musica, i bei vestiti alzano il morale, anche se in modo superficiale”.

“E poi – continua un altro – l’immagine di congolesi eleganti dà un senso di alta classe. Come gli italiani del dopoguerra: poveri, talvolta miserabili, ma che gran classe, che dignità”. Non a caso i congolesi si fanno chiamare “gli italiani d’Africa”, rinviando non solo all’analoga condizione migratoria, ma anche allo stile raffinato e elegante che oggi come ieri contraddistingue l’immagine globale dell’Italia e della sua moda. Si tratta dunque di suggerire con la Sape una vera e propria filosofia dell’eleganza, la cui origine è databile intorno agli Anni Cinquanta, quando svariati gruppi di congolesi in ritorno da Parigi scelgono di dimostrare il nuovo status acquisito sfoggiando vestiti costosi e griffe prestigiose, aprendo la strada alla resistenza e alla contestazione nei confronti dell’occupazione coloniale, per mezzo di un ribaltamento simbolico in termini di stile. Un processo che oggi si è trasformato in un rituale di iniziazione, che prevede la partenza per Parigi e il ritorno per ottenere il proprio riscatto, presenziando ai concorsi di eleganza al caffè La Détente (mentre negli Anni Ottanta si svolgevano al bar La Mano Blu). I due amori di cui cantava Josephine Baker, Parigi e il paese natale, un luogo di arrivo per non dimenticare quello di partenza, e un luogo di partenza per nuove ricollocazioni, che non sono più quelle dell’Africa che parla il linguaggio della tradizione, bensì quello della contaminazione, della ricerca e dell’affermazione di una nuova identità, consapevole della propria originalità e modernità.

Cosa che conferisce, attraverso i volti e le poetiche dei nuovi stilisti africani, o afro-bohémien, come li definisce Franco La Cecla, alla moda Made in Africa una dimensione pubblica, corale, di strada che l’Occidente sembra aver dimenticato. Tra questi ricordiamo Ainé Pathé Ouédraogo (Pathé’O), originario del Burkina Faso, che produce una linea di prêt-à-porter che si ispira alla strada, utilizzando tessuti africani e stampe wax, e si rifà alla grafica senegalese, ivoriana, nigeriana; Lamine Badian Kouyaté (Xuly Bët), nato a Bamako e poi trasferitosi a Parigi e Dakar, interprete del mondo giovanile e nomade, delle tendenze funky e di uno stile urbano evocato da slogan provocatori stampati sulle t-shirt; Oumou Sy, la regina della moda senegalese, che a partire dal suo paese e poi dalla boutique del Marais comincia a diffondere una moda volta a soddisfare contemporaneamente i gusti degli africani e degli occidentali. Si tratta comunque di esperienze isolate, che ancora non sembrano presupporre un discorso più ampio relativo ai sistemi di produzione, comunicazione e vendita che strutturano la moda. Diversa appare l’esperienza della Biennale Internazionale di Design Saint-Étienne, dove una commissione internazionale, per metà africana e francese, ha immaginato una serie di workshop itineranti in coppie di città (Ouagadougou/Saint-Étienne, Bamako/Parigi, Kigali/Milano, Luanda/Stoccolma) con lo scopo di creare un’importante touring exibition in Africa, per presentare il lavoro di designer provenienti da diverse parti del continente, di formazione occidentale o duplice, e avviare un dialogo con l’artigianato locale in vista di una modernizzazione tecnico-economica, che prepari il continente alla produzione seriale su vasta scala, sottraendolo a quella della sola arte turistica, residuo di una modernità da oltrepassare.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.