L’analisi di Georg Simmel definisce implicitamente la moda come un sistema di cui è possibile parlare solo nella modernità, in particolare in quella matura, relativa alla società di massa, in cui la produzione di merci è simultaneamente produzione di segni e significati sociali riproducibili serialmente. Col passaggio alla postmodernità questa produzione seriale si arricchisce, poiché il sistema cambia, mettendo al centro la persona, il soggetto, che attraverso le proprie esperienze percettive destruttura e rende performativo il linguaggio. L’unità di misura di questa trasformazione è rintracciabile nella figura del dandy, che si pone, nel sua opposizione al sistema massificato della moda, come Oltre delle sue potenzialità, codice interpretativo vivente della modernità. Il dandy esprime il mescolarsi dell’attività estetica con le forme di vita della metropoli e della produzione industriale, permettendo di coglierne la ritmicità e la tensione verso l’autocreazione. Portatore di un’istanza fortemente individualista, il dandy, immerso e soggiogato dalla folla, da essa contenuto ed escluso, legge il mondo attraverso le apparenze e campiona segni e significati a sua discrezione. Sceglie e misura gesti, pose, locuzioni, abiti e accessori, costruisce la sua identità in maniera completamente artificiale, non lasciando nulla al caso. Si separa in questo modo dalla Natura che, quando accoglie, eleva ad artificio (con un fiore all’occhiello, per esempio) manipolando il mondo e il proprio mondo, la sua persona sociale, con ironico distacco. Il dandy si guarda dall’esterno e si mette in scena stilizzando il proprio corpo come bodyscape. Il suo corpo non ha nulla di naturale, è truccato, vestito, nascosto per mostrare distacco: unità di arte e vita nella maschera.

Lagos, Nigeria. Photo: Prince Akachi.

Il dress code libero del dandy diviene la metafora abitativa privilegiata per leggere lo stato di flusso della modernità e il progressivo sgretolamento della sua solidità. Le esperienze personali sono il punto di partenza per operazioni di remix culturale e per un approccio antropofagico. Nel neo-dandysmo (dandysmo tipico della modernità avanzata) leggiamo la volontà di produrre displacement percettivi. Non più dunque solo guardare, ma anche guardarsi: guardare dentro di sé (esplorare l’inconscio, le sensazioni, le emozioni, i desideri, il funzionamento, la genetica, sondarsi attraverso la tecnologia) e guardare alla propria cultura, origine, storia personale e collettiva, in maniera diretta o mediata, costruendo la propria unicità e tessendo le proprie tele di significati, nell’ordine del superamento della stabilità contemplativa e a vantaggio di una nuova estetica rinvigorita dalla pienezza del sentire. Entro questo orizzonte si collocano alcuni dei lavori dell’artista britannico di origine nigeriana Yinka Shonibare, che assumendo la fin-de-siècle vittoriana come termine privilegiato di confronto interculturale, mostra, vestendo i panni del dandy, un territorio di contesa in cui si avvicendano seduzione e rapporti di potere tra presente multiculturale e passato coloniale, ponendosi come intermediario tra culture lontane e interdipendenti e interprete della propria vita emotiva e immaginifica. Esempio emblematico sono i due cicli: Diary of a Victorian Dandy e Dorian Gray, in cui il suo corpo interviene puntualmente per scomporre e ricomporre la struttura e la partitura cromatica, di immagini modellate su momenti alti della cultura visiva e letteraria anglosassone.

Diary of a Victorian Dandy: 14.00 hours. Yinka Shonibare. Courtesy V&A’s collections.

Nel primo ciclo, che si ispira a La Carriera del Libertino (A Rakes’s Progress) di William Hogarth, Shonibare rielabora la sequenza con costumi e suppellettili ottocenteschi e l’introduzione di se stesso (l’opera viene stampata e collocata nei corridoi sotterranei della metropolitana di Londra, con lo scopo di attirare l’attenzione dei viaggiatori urbani); mentre nel secondo, usa il personaggio di Dorian Gray come figura filmica e romanzesca insieme, rifotografando alcune inquadrature della versione cinematografica de The Picture of Dorian Gray, tratta dall’opera di Oscar Wilde, diretta nel 1945 dal regista statunitense Albert Lewin, e sostituendo la propria immagine a quella eterea e angelica di Peter Lawford. In entrambi i casi, l’idea è esporre la grande tradizione sette-ottocentesca – punto di riferimento di ogni riflessione sullo stile – al potere usurante del moderno multiculturalismo di massa, oltrepassando i confini di un paradigma estetico che, per quanto trasgressivo, risulta circoscritto alla sua ascendenza romantica e occidentale. L’esperimento dei cicli vittoriani va dunque letto nell’ordine di un ampliamento dei confini geografici e cronologici, secondo un duplice e simultaneo movimento: dentro e fuori l’Europa, dentro e fuori la grande tradizione figurativa – pittorica e cinematografica – anglosassone. In direzione dell’ambiguità, delle contraddizioni e dei conflitti del postmoderno, interpretati a partire dallo sguardo postcoloniale e ben riassunti da quella poetica della jouissance che per l’artista costituisce l’essenza di un bello radicale e doloroso, che prende il posto di quello distaccato e contemplativo della prima modernità.

The View from The Shard, London, United Kingdom. Photo: Benjamin Davies.

In Be-muse leggiamo: “io bramo la jouissance. Il desiderio del bello radicale induce in me un tipo di dolore che colpisce esattamente il centro della mia anima” (Shonibare Yinka, Be-muse, pag.19), dove il verbo “bramare” fende l’universo decadente e familiare del dandy moderno introducendo un desiderio che mette al centro il corpo, determinando lo slittamento dalla contemplazione al sentire, permettendo una comunicazione più intima, profonda e immediata. Travalicando i limiti della stessa rappresentazione, con Dandies, Shonibare si prefigge l’obiettivo di spingere ancora oltre la propria riflessione, non facendo più parlare semplicemente le immagini, ma il corpo intessuto di storia e di transiti, presentando, alla stregua di cyborg, i corpi senza testa dello scultore norvegese americano Hendrik Christian Andersen e dello scrittore Henry James, in abiti da equitazione in stile primo Novecento realizzati con stoffe “africane” – i famosi batik, o Dutch wax (i batik, infatti, oggi conosciuti come ciré di Brixton, il quartiere sul Tamigi deputato alla compra-vendita di questi tessuti, o altrimenti Dutch wax, e che cataloghiamo come “africani”, hanno una lunga storia. Occorre risalire ai tempi della dominazione olandese in Indonesia, quando i coloni assimilarono gli stili dei batik orientali e cominciarono a produrli industrialmente tentando poi di immetterli nuovamente sul mercato indonesiano in competizione con l’artigianato locale. Il prodotto Dutch però, essendo di qualità inferiore, non incontrò il successo sperato.

Lagos, Nigeria. Photo: Prince Akachi.

L’implicito doppio controllo, culturale e commerciale – con il doppio transito Indonesia-Olanda-Indonesia – in relazione a un bene personale come l’abito, dovette risultare inaccettabile a una cultura basata su un dress code rigido, che prescriveva i limiti entro i quali doveva avvenire la lavorazione sartoriale degli indumenti. Così il prodotto rifiutato in Indonesia trovò più favore sul mercato meno selettivo dell’Africa occidentale, da dove si diffuse in tutto il continente, radicandosi a tal punto da nascondere questa complessa stratificazione culturale) – ci pone di fronte a uno spiazzamento multiplo. Da un lato assegna la riconoscibilità dei personaggi al corpo, alle pose, più che al volto e alla parola, dall’altro compattando corpo e abito, dimostra come attraverso le forme e i tessuti si possa discutere il processo inventivo dell’identità, facendo luce anche sui fraintendimenti storico-culturali. L’elemento finzionale della propria differenza Shonibare lo incontra nella stoffa, nel coefficiente di etnicità di un tessuto che si dimostra in realtà una menzogna, poiché è inseparabile dai transiti culturali che l’hanno generato. Grazie ai quali si può simultaneamente sostenere l’importanza e l’inconsistenza della cultura della differenza, come processo di produzione, manipolazione e consumo di figure, necessario ai viaggiatori quanto alla moderna società della comunicazione.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.