“Do you want me to say who I am and all that?”. Comincia in questo modo Paris Is Burning di Jennie Livingston. Con la leggendaria Pepper LaBeija che guarda dritto in macchina, rivolgendosi alla regista e al pubblico. “Bring the camera closer, Mr DeMille. I’m ready for my close-up”. Due battute e racconta un mondo. Citando la diva del muto caduta in rovina Norma Desmond in Sunset Boulevard di Billy Wilder. Rievocando il sogno di quell’immaginario hollywoodiano. Lasciando intuire la relazione che il voguing intrattiene con le immagini e la cultura mediale. Mentre le nuove generazioni si entusiasmano seguendo le vicende di Pose su Netflix, che introduce una storia di finzione dentro a quel mondo favoloso e ai margini, raccontato con crudo realismo, diversi decenni prima dalla Livingston, riportando all’attenzione del pubblico la cultura ballroom e l’originalità della resistenza della comunità queer e transgender di colore newyorkese, occorre ricordare che non si tratta di semplice nostalgia.

 

https://www.youtube.com/watch?v=o47CwiJLpes&t=1s

 

Esiste una relazione storica e ambientale, che spinge a domandarsi: che cos’è cambiato? Reagan ieri, Trump oggi. Sembra quasi che le “culture wars” tornino con ferocia, nei balli sfrenati, non tanto di Pose, che racconta, con estrema fedeltà, anche estetica, le origini del fenomeno e del suo immaginario legato alla disco e all’Old Way, bensì in quel susseguirsi frenetico di duckwalk, piroette e cadute che contraddistingue il Vogue Fem e il Vogue Dramatics. Le condizioni sociali sono diverse. La strada, la prostituzione, l’omofobia, Harlem, i piers, Washington Park, le ball come simbolo di chiusura e ricerca della salvezza in un sogno, non costituiscono più gli elementi distintivi della scena. Nonostante ciò, la discriminazione è rimasta e la reazione proviene ancora una volta dalla musica, dal potere seduttivo e trasformativo del corpo, dalla lotta contro l’AIDS e dalle battaglie che debordano dalle passerelle delle ball al web.

 

https://www.youtube.com/watch?v=NqpND9A6PHU

 

Tra la fine degli Anni Ottanta e i primi Novanta, quando è diventato un fenomeno popolare grazie anche a Vogue di Madonna (frequentatrice del Sound Factory, quindi attenta a ciò che emergeva dall’underground nero e latino), il voguing ha subito molte trasformazioni. L’idea centrale, oltre che caposaldo della queer theory, di decostruire i generi e creare la propria identità, è rimasta. La struttura delle House, seconda famiglia, spazio di crescita, libertà espressiva e critica aperta al concetto di Home, fonte di soprusi e violenza, è ancora presente. Ma sul fronte della danza e della musica c’è stata un’accelerazione verso il futuro. Persino Vjuan Allure, il primo DJ e producer ad avere reinterpretato il classico The Ha Dance dei Masters At Work, ad avere raccolto l’eredità di Junior Vasquez al Sound Factory, della scena di Washington D.C., dell’approccio più beat-driven di DJ Sedrick, più legato a sua volta al sound di Baltimora, Chicago, della techno di Detroit, sembra lontano nel tempo.

 

 

Col nuovo millennio l’aggressività prende il sopravvento. Hip hop, R&B, deep house, ancora una volta Baltimora e Jersey Club, i bpm salgono a 130-140, le voci smettono di sedurre, urlano e si distorcono, i crash metallici, con il loro richiamo industrial, si susseguono ravvicinati, i rework di The Ha Dance sono innumerevoli. Un producer di riferimento all’interno della scena è MikeQ (Fade To Mind, Qween Beat), tanto quanto Kevin JZ Prodigy, con la sua voce ringhiante, mentre fuori, Divoli S’vere, più vicino alla “Google generation”, che al movimento ballroom e alla sua storia. I suoi pezzi sono free su Soundcloud e Youtube. Prendono le distanze dalla house, sono il prodotto di un rimasticamento di influenze che provengono dal dubstep, dal Jersey Club, da Britney Spears, Rihanna, Beyoncé. Sono più scuri, clubby, hard. È questa la nuova atmosfera che si respira alle ball più famose, tra cui la Latex Ball di New York. Un concentrato di stravaganza, aggressività, accelerazione, competizione, outfit da club kids e orgoglio queer.

 

 

Articolo pubblicato sul numero 51 di Artribune.