Tra postcolonialismo e nuovo folk urbano. Abbiamo intervistato Simone Trabucchi di Invernomuto in occasione dell’uscita di “I”, il primo l’album di STILL, il suo nuovo progetto musicale. Un lavoro che parte dalla ricerca sul genere dancehall  – che vede anche la presenza di sei cantanti italiani di origini africane – ma che sfugge ad ogni pretesa di categorizzazione.

V: Quando ti sei avvicinato alla dancehall?

S: Ho cominciato ad interessarmi alla dancehall quando siamo arrivati in Ethiopia, in una comunità rasta, ciò che di più lontano c’è dall’idillio e dall’utopia. La cittadina si chiama Shashamane ed è l’unica pericolosa in tutta l’Ethiopia. È famosa perchè lì Haile Selassie I concesse un pezzo di terra a tutte le vittime della diaspora che volevano tornare in Africa. Da un lato, l’ennesima prova della sua lungimiranza, dall’altro uno dei tanti motivi per cui la comunità rasta lo considera un essere divino. Fu così che gli africani cominciarono a tornare: dagli Stati Uniti, dalla Jamaica e da tutto il mondo. Potevano tornare e ricominciare la loro vita nella terra promessa. Un ritorno biblico a tutti gli effetti! Il problema è che se vai là ora, è tutta un’altra storia. Prima di tutto bisogna pagare, anche se poco, perchè dal momento in cui Haile Selassie è stato destituito, tutto quello che ha fatto è stato messo in discussione. Se oggi sei rasta e affermi di voler andare a vivere a Shashamane, sono piuttosto sospettosi e disillusi. La situazione è anomala. C’è chi è riuscito a tornare negli Anni Settanta, anche Bob Marley ci andò a un certo punto della sua vita e si fece una famiglia. In Africa questo vuol dire avere moltissimi figli. E Shashamane è piena di ragazzini, in piena crisi di identificazione: non sanno chi sono, perchè sono lì e che futuro avranno. L’unica cosa che sanno è che sono rasta. Sono gli unici ad essere andati a scuola, a parlare il tigrino e quindi su di loro ricadono tutte le incombenze che i genitori non possono svolgere, perchè culturalmente tagliati fuori dalla società. La situazione è paradossale. Non hanno nemmeno più il problema di tornare in Africa perchè ci sono nati. E andarsene dall’Ethiopia, non è facile. Una volta là siamo andati in un rasta bar, ascoltavano del soul a volume molto alto, ho conosciuto anche Popcaan.

V: Come nasce STILL e qual è il suo immaginario sonoro?

S: Nasce fondamentalmente da Negus, che ha rappresentato un modo per avvicinarsi alla tematica reggae e dub, in maniera più personale. Sia io che Simone Bertuzzi (l’altra metà di Invernomuto) abbiamo sempre ascoltato dub, reggae, roots reggae, il primo dubstep. Il dub è stato un modo per avvicinarmi all’elettronica, perchè ho capito che in studio di registrazione il mixer veniva utilizzato come uno strumento. In Negus da un lato c’è la tematica musicale, nel documentario compare anche Lee Perry, dall’altro quella culturale. Approfondendo l’argomento infatti ci siamo accorti che c’era un personaggio ricorrente, Haile Selassie I, che ci metteva nella posizione di dover affrontare un altro tema importante, quello del colonialismo italiano. Così, come dicevo prima, siamo andati in Ethiopia grazie all’Istituto Italiano di Cultura e là ho conosciuto un ragazzo inglese che aveva fatto una compilation di strumentali dancehall per una radio locale. L’ho ascoltata, mi è piaciuta e ho iniziato ad addentrarmi maggiormente in quelle sonorità. Quindi, parallelamente a Negus e ai viaggi fatti grazie a quel progetto, ho cominciato una mia ricerca, che è partita collezionando 7 pollici dancehall. Mi sono fatto una mia libreria e per prima cosa ho realizzato un mixtape per Club Adriatico. La dancehall è una musica molto minimale, scarna, specialmente negli Anni Novanta, composta da pochi suoni e con gli strumenti elettronici che venivano utilizzati in modo completamente diverso rispetto all’hip hop. Era un approccio che condividevo. I 7 pollici da un lato hanno la traccia e dall’altro la strumentale su cui potevi cantare. Nella strumentale non c’è niente, neanche la linea di basso che diventa un kick. Un’anomalia, se si pensa che nella musica jamaicana sono sempre esistite due cose fondamentali: la batteria e la linea di basso. Ad ogni modo oggi in Jamaica di vinili non se ne trovano più, i giapponesi ne hanno comprati interi magazzini.

STILL. Photo: Giulio Boem.

V: Quindi bisogna andare in Giappone per il reggae..

S: Infatti sono andato in Giappone. E anche in Canada. Mentre ero a Vancouver per una mostra di Invernomuto, mi è capitato di trovarne un po’. Li ho collezionati, ho capito qual era il metodo e la struttura della mia ricerca, la lettura che mi interessava dare, e ho cominciato a lavorarci sopra. Inizialmente ho fatto un po’ il dj, ho comprato una drum machine che aveva un suono che mi interessava. Una copia di una 909. A Vancouver mi hanno dato il contatto di uno studio, ci ho passato tre giorni e lì sono nati i pezzi strumentali.

V: Una parte di STILL si era formata.

S: Sì. Al ritorno ho continuato a lavorarci sopra e li ho inviati a Bill Kouligas di PAN, dicendogli di ascoltarli come la demo di un album. Gli sono piaciuti e in quel momento è nato ufficialmente STILL. Abbiamo fatto un secondo mix, poi lui mi ha suggerito di trovare un cantante per ogni traccia. E il progetto è cambiato di nuovo, perchè inizialmente non avevo preso in considerazione la presenza della voce. Venivo da Dracula Lewis, un progetto musicale in cui era centrale e volevo fare qualcosa di più leggero, che non mi obbligasse a stare sul palco a cantare. Mentre è diventato l’opposto!

V: Quindi l’evoluzione è stata progressiva?

S: Sì, STILL non è nato a tavolino come un progetto con sei cantanti di origine africana. Anzi, inizialmente avevo contattato cantanti che conoscevo, ma non ho trovato un punto di incontro con nessuno, perchè per chi è abituato alla dancehall e a cantare in maniera tradizionale, non è immediato il dialogo con i miei pezzi, non essendo propriamente dancehall. A quel punto ho scelto una strada più concettuale. La tematica coloniale era già presente in Negus, ed è diventata parte integrante anche di STILL. Sono partito dalla lingua: il tigrino, sapendo che al suo interno si possono trovare tracce di italiano, dovute all’occupazione. Ho provato a scrivere dei testi facendo una specie di collage. Poi mi sono confrontato con una ragazza milanese, di origini eritree, che conoscevo e che era ben introdotta all’interno della comunità eritrea della città. Le ho raccontato il progetto e lei mi ha suggerito di andare al Rainbow Caffè in Porta Venezia. Ci sono andato tutti i giorni per un mese.

V: Lì hai conosciuto i cantanti?

S: Sì, anche se ci è voluto un po’ di tempo. Tra le prime persone con cui ho familiarizzato c’è stata Elinor, una delle proprietarie, che dopo aver approfondito il progetto, mi ha suggerito alcuni ragazzi e ragazze che potevano essere interessati a cantare. Alcuni sono passati in studio, e mi sono accorto che non tutti riuscivano a leggere il tigrino, perchè non era il loro idioma. Poi ho conosciuto Freweini, lei voleva cantare, non era una professionista, cantava con gli amici e alla Chiesa etiope, ma appena mi ha raggiunto, abbiamo subito registrato due pezzi. Poi ho conosciuto Germay, lui ha una storia molto particolare. Mi aveva detto che cantava con i suoi due cugini, due gemelli Keidino e Taiywo, che in realtà erano semplicemente suoi amici. Germay è etiope, è stato adottato quando aveva otto anni e quando l’ho conosciuto stava già facendo un suo percorso di recupero della memoria storica e personale. Sapeva parlare il tigrino, ma l’aveva dimenticato. Per lui l’album è stato un modo per trasferire il suo percorso nella musica. Ma dopo aver registrato non è più tornato. Al live al Teatro Continuo di Burri in Parco Sempione ha solo ballato, perchè non era mai venuto alle prove dopo la registrazione dei pezzi. Tra tutti è quello che nutre un maggiore interesse per l’Africa, forse il più militante. Anche rispetto a Freweini, che pur essendo all’interno della comunità eritrea, non è così focalizzata sul tema dell’identità. I due gemelli sono italiani, hanno la madre nigeriana e il padre romagnolo. Elinor, è una delle proprietarie del Rainbow, a lei ho fatto leggere il testo prima degli altri, per avere un esempio di fonetica. L’ho registrata con un semplice registratore, e quella è diventata la traccia. Sotto si sentono anche i rumori dei bicchieri. Devon invece è di Fano, me l’ha presentato Lorenzo Senni. È nigeriano, si è trasferito in Italia pochi anni fa, prima ha vissuto in Svezia col fratello, dove ha studiato musica. È preparatissimo, ha altri quattro progetti musicali. È molto bravo ed estremamente versatile. Abbiamo fatto un primo set insieme a Club Adriatico e ci siamo subito trovati in sintonia. Nell’album ho cercato di valorizzare il più possibile la presenza dei cantanti. Ogni pezzo ha due-tre versioni di voci, con interpretazioni differenti, che poi ho mischiato per ottenere la versione finale di ciascuno.

V: Faccio un passo indietro a Invernomuto. In Neuromante di William Gibson, Invernomuto è un’intelligenza artificiale. Non so se sia stato il libro ad ispirare il nome del vostro progetto artistico, ma ovviamente mi suggerisce un’attenzione rivolta alla tecnologia e ai media. Che rapporto intrattiene Invernomuto con la tecnologia e i media, da un punto di vista progettuale, di analisi socio-antropologica e culturale? E quale eredità c’è in STILL?

S: Sì, il nome Invernomuto viene da Neuromante. Quando ho conosciuto Simone, lo stavamo leggendo entrambi. Invernomuto era una piattaforma. Anche di STILL ne parlo in questo modo. Mi piaceva l’idea di un luogo fisico dove si potesse salire a bordo, creare qualcosa e abbandonarlo a piacere. Una piattaforma che navigasse. L’approccio cyberpunk invece mi affascina meno. Poi ovviamente come ogni suggestione lavora in maniera sotterranea, a tua insaputa. Sicuramente mi interessa il lato tecnologico della musica ma non sono un nerd.

 

 

V: Passiamo all’album. Si intitola “I”, com’è strutturato?

S: I pezzi di “I” sono sviluppati in modo tecnologico, assecondando il linguaggio di ogni macchina. C’è poca musicalità, esattamente l’opposto rispetto a Dracula Lewis. In “I” le melodie sono quasi tutte generate, non composte. È stata sicuramente una fase della mia vita artistica, che ha privilegiato il rapporto linguaggio-macchina. Esattamente come nel dub. Nasce da un errore in studio di registrazione: un ritorno che crea un eco differente da come lo si faceva, molto più spinto, a tal punto da determinare la nascita di un nuovo “genere” musicale.

V: Qual è la relazione con i cantanti? Sembrate quasi un gruppo..

S: Da un lato sì, dall’altro c’è una distinzione molto precisa: loro sono i cantanti e io il producer. Nella musica pop, nel binomio cantante-producer, il secondo scompare sempre a favore del primo. Qui invece l’equilibrio è opposto, perchè loro sono tanti e io uno. In più l’approccio nasce da una presa di posizione rispetto al ruolo dei producer dancehall. Notoriamente poco considerati, quasi sempre sconosciuti, rispetto alle hit dove delle basi venivano rese famose da un cantante. A me interessa invece considerarli come dei compositori.

V: Perchè sono sempre stati così poco considerati?

S: È una caratteristica della storia del genere. Anche chi ascolta dancehall, non ti dirà mai “Che bomba quel pezzo prodotto da Computer Paul”. Magari apprezzano la versione di Sizzla, proprio perchè lo ha reso famoso il cantante. Nel reggae e nel dub è successo il contrario. Ma semplicemente perchè la storia la fanno gli europei. C’è un imprinting colonialista anche nella musica, purtroppo. Il dub come genere è stato inventato dagli inglesi. In Jamaica esisteva ma non era considerato un genere, bensì una delle tante versioni di un pezzo. Ognuno all’interno del proprio soundsystem deve suonare una versione diversa da quella dell’altro, per una questione di originalità. Invece cos’hanno fatto gli inglesi? Hanno collezionato tutte queste versioni e hanno inventato un nuovo genere, chiamandolo dub. C’erano un pubblico e un mercato, e in breve tempo King Tubby è diventato una star. Naturalmente si fa per dire, perchè da quella fama ci ha guadagnato poco o nulla. In Jamaica i diritti d’autore non sapevano neanche cosa fossero. Solo i furbi come Bob Marley e la sua famiglia se n’erano accorti. Lee Perry per esempio aveva venduto i diritti dei primi pezzi di Marley, che aveva registrato lui. La dancehall è un genere, specialmente quella di fine Anni Ottanta, inizio Novanta, che non è ancora stato rivalutato completamente, anche se ne parlano tutti. Ma manca un approccio storico.

V: In STILL tu lo hai ricercato?

S: Sì, nasce da questi ragionamenti. Ma non sono l’unico a farli. Bill Kouligas per esempio è molto appassionato di queste tematiche. Questo è il motivo per cui l’album l’ho mandato a lui. The Bug, al di là della sua produzione, è un altro molto interessato. Reggae e dub sono un riferimento imprescindibile per la musica elettronica. La dancehall è più di nicchia, semplicemente.

V: Il concetto di Alterità è centrale all’interno degli studi postcoloniali. Nel libro di Teresa Macrì, Postculture, vengono analizzate le pratiche artistiche degli autori vissuti in ex colonie o che si sono trasferiti in metropoli occidentali pur mantenendo un legame culturale, di valori e di sentire col proprio territorio di origine. Tu come parte di Invernomuto e come STILL sei esattamente dall’altra parte, vivi in un contesto occidentale ma manifesti una sensibilità verso l’Alterità, che credo debba molto agli studi postcoloniali, anziché ad una visione dell’incontro culturale indotta dal nomadismo globale. Che cosa ne pensi?

S: Da questo punto di vista STILL rimane una piattaforma. Io realizzo la musica e la offro. L’esperienza che ciascuno dei cantanti ha fatto attraverso la musica, di rilettura del loro passato, gli appartiene ed è personale. Come ho già detto non mi piace pianificare troppo all’origine. Il motivo per cui sono andato avanti con loro è perchè non c’è stato troppo dialogo. Ci siamo semplicemente incontrati nello spazio creato dalla musica.

STILL. Photo: Anna Adamo & Guido Borso.

V: Dancehall, Afrofuturismo e cultura dei soundsystem, che cosa rappresentano per STILL?

S: L’Afrofuturismo è un po’ un trend. Se un musicista elettronico si avvicina a tematiche vagamente africaniste si parla immediatamente di Afrofuturismo. Mentre se parli con loro, non sanno neppure cosa sia. E anche per me non è stato un riferimento diretto, o perlomeno conscio.

V: La cultura dei soundsystem è un riferimento più diretto?

S: Assolutamente sì, mi interessa moltissimo, anche se ho un approccio minimalista alla musica, non rave. Mi piace quel feticismo, quell’attenzione che hanno alcuni operatori di soundsystem, jamaicani, inglesi, italiani, di fronte alla ricerca di un suono specifico. Un punto nello spazio dove tutto sia calibrato per suonare correttamente e si possa sentire fisicamente bene.

V: Il corpo è al centro.

S: Sì, tutto “I” è composto a partire dalle frequenze: le basse, le medio-basse, le medio-alte e le alte. Il soundsystem è strutturato a piramide per questo motivo, in maniera che si possa scegliere di escludere alcune frequenze, per farne sentire maggiormente altre. Come se si togliessero degli strumenti.

V: Perchè ti interessa?

S: Perchè mi affascina lavorare sul suono in maniera fisica, per entravi maggiormente dentro. Nel momento in cui ti invito in un luogo, per farti ascoltare il mio disco, e questo avviene attraverso un soundsystem, l’esperienza live diventa molto più impattante. Mi piace l’idea di colpire fisicamente con delle frequenze. Non ai livelli di The Bug, che è estremamente massimalista. Io sono più vicino al minimalismo. La Monte Young quando fa un’installazione, fa un lavoro sul suono in relazione allo spazio. Nella dancehall è esattamente la stessa cosa.

V: È la situazione che hai cercato di ricreare nel live al Teatro Continuo di Burri in Parco Sempione a Milano?

S: La mia idea iniziale era costruire un triangolo, rifacendomi al cerchio magico. Il rituale è uno degli aspetti distintivi della dancehall. Hai un personaggio che diffonde la formula magica e un diffusore che è il soundsystem, entrambi ti trattengono in quel luogo fisico e immaginario. Quindi sì, mi interessa ricreare questo tipo di situazione e spazio attraverso il suono.

V: In una precedente intervista con Craig Leon, è emerso un riferimento importante: l’Anthology of American Folk Music di Harry Smith. Te la cito perchè, se non ricordo male, in passato riferendoti al lavoro di Lorenzo Senni, avevi sollevato l’idea di un folk contemporaneo. Un accostamento che funziona anche per il tuo progetto. Nella Internet Age che cos’è folk?

S: L’Anthology per me è stata importantissima. Ha cambiato la mia prospettiva su tutto: sulla storia e sulla musica. C’è stato anche un altro disco dei primi duemila This Is Folk Music di Mudboy (il successivo l’avevo fatto uscire su Hundebiss), che mi ha aperto degli scenari. Era un disco alla Terry Riley, dove lui suonava l’organo meravigliosamente, ma anzichè farlo passare come un album di grande invenzione, esplicitò che si trattava di folk music. Oggi lo stesso Terry Riley è folk music. Con Dracula Lewis, il mio progetto musicale precedente, avevo sviluppato una mia teoria sul folk, che era esattamente quella di fare musica folk, attingendo da tutto ciò che oggi si può considerare folk urbano. Era una presa di posizione che si fondava sul rigetto del concetto di avant-garde e dell’etichetta di musica elettronica sperimentale. Non intendo affermare che tutto sia folk, però nel 2017 credo che molto di quello che venga prodotto sia folk. La stessa idea di recupero rimanda a questa visione. Possiamo dire che si tratti nostalgia, ma la musica ha sempre vissuto di nostalgia. Oggi se fai un progetto rap Anni Novanta stai facendo folk. Però puoi farlo in un modo culturalmente più rilevante. STILL è partito da queste riflessioni ma ci finisce dentro anche molto altro. Ci sono così tanti ingredienti che faccio fatica a decifrarlo. In più, non è solo la mia storia, ci sono anche i cantanti, la cui presenza rimanda alla necessità di cercare e trovare una lingua per esprimersi nel contesto contemporaneo.

V: In quante lingue hanno cantato?

S: In inglese, in tigrino e amarico. Il tigrino è la lingua parlata in Eritrea e nel nord dell’Ethiopia mentre l’amarico in Ethiopia. Sembrano simili ma sono molto diversi. Negli Anni Novanta c’è stata una guerra che ha diviso i due territori. Ne abbiamo discusso anche durante le prove del disco. La questione di Haile Selassie I per esempio ci ha visti su posizioni contrapposte. È un personaggio importante della storia africana. A me piace l’idea di trasformarlo in un oggetto narrativo. È un simbolo, basti pensare al reggae, che può essere vissuto e interpretato in diversi modi, quindi è estremamente comunicativo. Ma durante le prove l’ala eritrea si è rifiutata di stare sul palco se veniva citato Selassie. È indubbiamente controverso, per uscire dal suo impero monarchico ci sono state delle lotte feroci. Per Devon che è nigeriano e si considera rasta, per esempio, Haile Selassie è l’incarnazione del Cristo. Quindi, capisci? Di cosa stiamo parlando? Quest’album non può essere etichettato come folk. C’è di mezzo di tutto: la politica, la geopolitica, gli studi postcoloniali. In più siamo tutti italiani. Aspetto che ci tengo a sottolineare rispetto alle origini africane, perchè si tratta di immigrati di seconda e terza generazione. Lo stesso progetto è nato a Milano, non in Ethiopia.

V: Sì, ma le riflessioni postcoloniali partono esattamente dalla prospettiva urbana.

S: Sono d’accordo. Postcoloniale è un termine corretto, ma non multiculturale. Ogni cantante ha un approccio talmente individuale all’identità africana, che sommato al mio, rende questo progetto un grande esperimento, che non può essere ingabbiato in certe etichette, pena la distruzione.

STILL in Jamaica.

V: Il discorso che stai facendo è quello postculturale a cui mi riferivo, che cerca di superare il concetto di multietnicità.

S: Credo sia giusto, anche se continua ad esserci molta confusione. All’estero per esempio si tende a confondere e identificare la questione africana con quella afroamericana. Si tratta di due storie completamente diverse. Drammi e psicosi differenti. Io sento di potermi avvicinare alle culture africane, a partire dalla mia identità italiana, quindi a partire da una storia che conosco, con la consapevolezza che stiamo parlando forse degli ultimi cinquanta o al massimo cento anni. Che cos’è successo prima? Non ce lo domandiamo? Non è altrettanto interessante? Io poi metto seriamente in discussione il fatto che esista una razza italiana.

V: Sì, vengono meno le origini e i confini..

S: Certo. Basta pensare ad Annibale, credo sia un eroe di cui valga la pena parlare. Penso che ci sia molto sangue bastardo da queste parti. È ciò che rende il Mediterraneo un posto incredibile. Anche se si tende più a dividere che a ricordare quanto la nostra storia sia un susseguirsi di incontri e incroci culturali.

V: Esattamente. Se rileggiamo la storia dalla prospettiva del viaggio ci accorgiamo che i confini, la razza, ogni categoria è un’invenzione. Lo stato-nazione è un’invenzione della modernità.

S: Esattamente, riportando il discorso al progetto STILL non voglio affermare che i cantanti non siano africani, semplicemente penso che con la loro esistenza mettano in crisi il concetto e l’interpretazione a cui siamo abituati di africanità.

V: Eliminando i confini però come possiamo distinguerci? Non possiamo neppure più affermare che un certo tipo di musica sia africana. Forse il confine può essere considerato un limite poroso, un’opportunità di definizione, ma non in senso statico. No?

S: Sì e no. Io credo molto di più nell’artefatto come approccio. Intendo dire: un artefatto si può trovare in diverse culture. È un oggetto che nel passaggio da una regione all’altra si è modificato minimamente. Mi racconta molto di più delle necessità di un popolo, del suo immaginario. È anche un motivo di incontro, condivisione, imitazione e scambio. Credo che questa prospettiva sia molto più narrativa rispetto all’etichettare una musica come chaabi egiziana. Se vado in Marocco e non so che quella che sto ascoltando è musica chaabi marocchina, è assolutamente uguale, suonano molto simili. È ovvio che ci sono delle differenze, però le categorie sono troppo facili. Sono una mistificazione. Necessaria per fare ordine. Ma io non credo assolutamente nell’ordine.

V: Siamo arrivati a I frutti puri impazziscono di James Clifford, che per me rappresenta il punto di riferimento teorico per parlare della crisi delle categorie moderne, a partire da un esempio molto forte per la storia coloniale: il Musée de L’Homme a Parigi. La domanda sorge spontanea oggi come allora: ha senso parlare di un Museo dell’Uomo, semplificando il mondo e la storia con categorie riduttive, di matrice esclusivamente occidentale e che fissano le culture in una rappresentazione immutabile? L’ordine e il dis-ordine. Esattamente come la dub. Esisteva anche prima di chiamarsi così, ma darle un nome è servito a comunicarla quindi a farla esistere sul piano dell’immaginario, non in quello reale, perchè lì esisteva già. Le trasformazioni avvengono nel mondo reale, i condizionamenti nell’immaginario. E l’immaginario si costruisce a partire dalla concettualizzazione e dalla rappresentazione.

S: È vero, è incredibile. Tempo fa abbiamo fatto un lavoro sullo stereotipo della Venere Nera. Si tratta di un video-saggio, con una parte di ricerca che è un cut and paste, di quello che era emerso nel gruppo di studio che avevamo costituito. Ci aveva aiutato Gigi Pezzoli, che è un grande appassionato di storia africana. Ci aveva mostrato dei libri in cui la rappresentazione degli africani era cambiata nel tempo. Prima venivano raffigurati come semidei, secondo lo stile della Magna Grecia, vestiti con drappi e senza che i tratti somatici fossero particolarmente accentuati. Nessuna differenza con noi. Una popolazione nobile. Esotici nel senso di estremamente nobili. Poi a un certo punto avviene una trasformazione dell’immaginario. Quelle stesse persone vengono rappresentate come inumane, simili alle bestie, determinando quel rapporto di superiorità-inferiorità che ha portato al colonialismo. L’immaginario è veramente l’ultima delle ideologie. O forse la prima. Nel nostro lavoro sulla Venere, questo discorso non c’è però, pur trattandosi di un interessante spunto di riflessione perchè permette di comprendere che è ed è stato un problema di rappresentazione.

V: Il discorso della crisi della rappresentazione di insiemi compatti ed omogenei passa anche attraverso la musica. Non credi?

S: Beh, se consideriamo che la dancehall non vive di album, bensì di singoli, direi di sì. L’album è una concezione molto western. Mentre per loro contano le hit. Di una strumentale ne escono fino a sette versioni, con cantanti diversi. La versione più bella diventa una hit.

V: L’album l’hai concepito così?

S: Un pochino ma non troppo.

V: È un modo interessante per destrutturare il concetto di album.

S: Se stai dietro al mondo digitale, il mercato sta andando in questa direzione.

V: Tu la segui?

S: A momenti, ma onestamente non mi piace molto. Con Hundebiss è impossibile. In realtà mi sto disaffezionando al vinile. Ovviamente ci sono dei dischi che considero fondamentali, che vanno da Lee Perry a King Tubby, o alcune compilation. La dancehall è un genere che vive del singolo pezzo più che della dimostrazione di estro di 45 minuti di un singolo artista. Questo è uno dei motivi per cui trovo interessante la coralità. Tutti i generi musicali dance, vivono come un’intelligenza collettiva. Questo è un aspetto che apprezzo, non amo troppo l’egocentrismo della musica.

V: Questo album prevede la presenza dei cantanti africani ma STILL evolverà anche in altre direzioni?

S: Ora è con loro, domani sarà con altri. Magari farò qualcosa con uno strumentista. È aperto alle collaborazioni. E non penso debba necessariamente avere a che fare con l’Ethiopia.

V: La dancehall rimarrà?

S: Non lo so. Nel senso, concettualmente parte da lì. Anche se devo dire che nel disco di dancehall vera e propria ce n’è molto poca.

V: Intendo dire, ci troviamo di fronte al progetto STILL che si pensa come una piattaforma e può attingere da tutto, oppure ad un lavoro più concettuale, alla Lorenzo Senni, che attinge da un genere e ci lavora sistematicamente sopra a suo modo?

S: Mentre Lorenzo è realmente minimalista, io mi devo confrontare con l’intrattenimento della canzone, che mi rappresenta. Anche Dracula Lewis andava in parte in quella direzione. C’era una persona sul palco che cantava, poteva sembrare un po’ rock ma anche un po’ rap, ma la gente ballava. C’era quella confusione tipica del mio approccio.

 

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