Potremmo dire che la moda oggi non è fatta di tendenze ma di fashionscape. Forse non per tutti, ma sicuramente per Stella Jean, con la sua identità in bilico tra l’Italia e Haiti. Parlarne in questi termini significa considerarla come un medium, ponendo l’accento sul cosa racconta. Un abito può essere molto più di un oggetto. Quanti viaggi ci sono dentro? Quanti mondi? Quante culture e quante storie sociali? Ma soprattutto può essere un punto di vista sul presente e sul passato. Può anche diventare la speranza di un futuro diverso. L’attivismo, la capacità di produrre un cambiamento sociale o politico non passano semplicemente dalle strade o da prese di posizione radicali, ma possono concretizzare in un esserci. In una presenza consapevole e capace, attraverso il lavoro, di costruire il mondo in cui ci piacerebbe vivere.

V: Solitamente parto dalla storia personale, per delineare un vero e proprio ritratto. Ho letto che tuo padre è originario di Torino. La capitale sabauda ha una lunga tradizione nella moda, dove prevale il concetto di artigianalità, in relazione alla preesistenza della Corte. So che lavori stabilmente a Roma, ma mi domandavo se questa tua vocazione avesse radici più lontane.

SJ: Sì mio padre è torinese. È sempre stato innamorato della sua città, che descriveva come una piccola “Parigi italiana”. Io sono nata a Roma, ma credo che lui abbia portato con sé la sua storia e la sua esperienza. Quand’ero bambina lo accompagnavo dal sarto, e più di una volta mi sono trovata di fronte a un rituale maschile estremamente affascinante. Non si trattava semplicemente di provare degli abiti, ma si passavano ore a chiacchierare. È stato il mio primo contatto con la sartoria e con una visione della moda che la oltrepassava, traghettandola verso l’attualità dei discorsi e una dimensione sociale. Ricordo che mi portava anche in un grande negozio per bambini e che all’ora di pranzo, a porte chiuse, mi faceva provare tutte le collezioni. A colpirmi moltissimo era la cura con cui venivano trattati i capi e attraverso cui si manifestava questo rituale. Non era vanità, ma una forma di rispetto. Una comunicazione non verbale che si realizzava attraverso la moda.

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V: Prima di fare la fashion designer sei stata una modella. Trovo che sia un percorso interessante, per conoscere meglio il rapporto tra il corpo e l’abito. Che cosa ti ha insegnato quell’esperienza?

SJ: Fare l’indossatrice mi ha permesso di conoscere l’ambiente, ma non era quello il mio ruolo. Sono passata dall’altra parte grazie al sodalizio con un’artista umbra. Lei e sua madre ricamano ancora oggi i miei capi. Quest’incontro è stato importante, perchè non sapendo disegnare, avevo bisogno di qualcuno capace di comprendere il mio modo di lavorare sul corpo, modellandomi le stoffe addosso.

V: L’inizio vero e proprio però è avvenuto attraverso il concorso indetto da Vogue Italia e Alta Roma.

SJ: Esattamente. Nella mia prima collezione ero partita dalle mie radici italiane, legate all’artigianalità, alla manualità, agli antichi saperi e alla pittura su stoffa. Era costituita da abiti dipinti e ricamati a mano. Purtroppo però né il primo, né il secondo anno in cui avevo partecipato al concorso, la mia proposta risultò convincente. Al terzo, dopo una breve fase di abbattimento, decisi di ascoltare il consiglio di Simonetta Gianfelici, una talent scout della giuria. Fu lei a suggerirmi di portare in passerella qualcosa che fosse unico e solo mio. Così iniziai a riflettere sul “trauma” che aveva caratterizzato la mia adolescenza, sull’essere in bilico tra due culture, italiana e haitiana, sul non sentimi parte o completamente accettata né dall’una né dall’altra. Trasformai questo sentimento in immagini e look, combinando elementi tipici della sartoria italiana, con forti cromatismi di matrice caraibica, andando ancora oltre, alle radici nere di Haiti. L’isola dov’è nata mia madre, infatti, è stata la prima Repubblica nera al mondo, un luogo molto fiero della propria negritudine. La mia condizione di métisse, mi ha consentito di non avere uno sguardo superiore, riuscendo a fare dialogare in maniera rispettosa due culture apparentemente molto distanti tra loro, tendendole sullo stesso piano. Non sono stata la prima ad introdurre in una collezione temi africani o del sud del mondo, ma sicuramente non l’ho fatto con quello sguardo alla Karen Blixen tipico de La mia Africa, da safari bianco sul continente nero. Quella collezione è stata la mia dichiarazione d’intenti, un modo per esprimere il desiderio, attraverso la moda, di andare oltre l’estetica.

V: Il nomadismo è un tema ricorrente oggi, al punto da determinare l’urgenza di una riflessione sul fenomeno dell’appropriazione culturale. Alla luce di quanto hai raccontato pare che il tuo approccio si muova in due direzioni: da un lato, sei consapevole dei meccanismi che regolano il sistema moda, dall’altro attivi dei discorsi culturali, mettendo al centro la tua identità. In che modo la tua visione dell’Alterità incontra l’ethical fashion?

SJ: Grazie alla moda ho avuto l’opportunità di lavorare in Burkina Faso, in Mali, ad Haiti, in Perù, in Bolivia e in altri paesi, con un punto di vista molto preciso: crescere insieme. La bilateralità della collaborazione è un passaggio in cui spesso ci perdiamo. Le donne con cui lavoro fanno impresa. Io non guardo al cosiddetto “terzo mondo” in vista di una delocalizzazione produttiva. Esattamente come non utilizzo l’ethical fashion come strategia di marketing. Nella collezione dedicata ad Haiti ho affrontato molti temi: l’arte naïve, la letteratura, l’architettura, con lo scopo di fare conoscere quel paese, che dopo il terremoto era stato assimilato a una gigantesca bidonville. Haiti invece è una fucina di talenti artistici, un’isola atipica per i Caraibi, dove le abitazioni delle persone comuni, fatte di lamiera, sono piene di opere: quadri alle pareti, disegni sulla terra. Io desidero attivare dei discorsi e tradurre le competenze e le peculiarità di quegli artigiani in oggetti, attraverso un incontro e un racconto reciproci.

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V: L’interesse per la pittura viene da lì?

SJ: In parte sì. La casa in cui sono cresciuta a Roma era una vera e propria galleria d’arte, in cui si incontravano tutti i periodi dell’arte naïve haitiana, mescolati al contemporaneo italiano. Sono stata permeata da quel contesto culturale e successivamente ho cercato di conoscerlo meglio. Viaggiando ho scoperto tecniche estremamente sofisticate, come la pittura su stoffa col fango fermentato in Mali. La differenza tra “noi e loro” è che le nostre lavorazioni si fanno in atelier, piuttosto che in dei villaggi, ma quel sapere ha la stessa profondità, significato ed importanza del nostro.

V: A partire dagli Anni Sessanta gli studi postcoloniali hanno analizzato la relazione tra la Storia, così come è stata scritta dall’Occidente europeo, e le micro-storie, che oggi sono una componente essenziale dell’identità metropolitana. L’arte postcoloniale a sua volta ha riflettuto su queste tematiche, mettendo al centro anche la condizione femminile. Quando presenti una collezione come quella de Las Cholitas Luchadoras, quale messaggio vuoi veicolare? Pensi che metaforicamente ci sia ancora bisogno di “combattere”?

SJ: Quando viaggiamo fuori dall’Occidente, pensiamo che il nostro ruolo sia quello di salvare, catechizzare, insegnare la strada per l’indipendenza. Arrivare in Bolivia e scoprire una comunità in cui le donne, dedite ad una pratica maschile ed aggressiva, hanno conquistato la loro autonomia senza rinunciare ai propri abiti, è stata una risposta interessante alla nostra emancipazione. Se pensiamo al nostro percorso evolutivo, l’indipendenza si è accompagnata all’adozione del tailleur, ad un modo di vestire maschile, per mostrarci più forti. Invece Las Cholitas Luchadoras non hanno abbandonato né gonne e sottogonne, né ballerine e trecce, lasciando convivere femminilità e tradizione. La loro determinazione nel cambiare le regole, le ha rese più famose degli uomini nel wrestling. Cholitas, nell’idioma locale, è l’equivalente del nostro “cafone”. È un termine offensivo, con cui venivano identificate le donne, a cui non era permesso di entrare nella città, né di prendere i mezzi di trasporto, per come erano vestite. Loro hanno lottato per cambiare questa condizione. Oggi ci troviamo di fronte ad un processo di creolizzazione irreversibile, che riguarda tutti. I flussi di movimento mondiali non si possono arrestare. Siamo destinati ad incontrarci e dobbiamo farlo nel migliore dei modi.

V: Come hai mixato le ispirazioni provenienti da Las Cholitas con la tua visione dell’italianità?

SJ: Quando si crea una collezione si ragiona attraverso un ossimoro stilistico. Si introducono, come nel caso de Las Cholitas, due elementi a contrasto, come le gonne ampie e una maglia sportiva, per sottolineare l’allenamento che sta dietro all’esibizione della lotta e bilanciare l’ispirazione proveniente da un’altra cultura. Non si può ripetere la storia di altri, sarebbe un errore, una mancanza di rispetto e si rischierebbero la caricatura e la parodia. Il mio obiettivo è combinare una visione sartoriale e il lavoro delle mie artigiane italiane, con altri usi, costumi e le tecniche di cui vengo a conoscenza da altre parti del mondo, per creare un nuovo abito che possa innescare una riflessione culturale.

V: Per quale motivo assegni così tanta importanza al ricamo e alla pittura?

SJ: Si tratta di tecniche che fanno parte della tradizione, di un approccio slow fashion e si stanno perdendo, perchè richiedono tempo, conoscenza, attenzione e difficilmente riescono ad essere pagate correttamente. Questa difficoltà però non ci deve indurre ad abbandonarle, perchè il rischio è quello di tradire il nostro territorio, appiattendo il valore aggiunto del Made in Italy. Credo che il globale debba essere un dialogo, non la prevaricazione di un modello sugli altri.

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V: Pensi che questa capacità di mettere in dialogo mondi distanti, di surfare tra cultura popolare e arti, di richiamarsi a più media, rappresenti anche una tensione generazionale?

SJ: Sì, mi sento dentro una grande onda, guidata dalla ricerca del senso e da una visione più sincretica. Nell’ultima collezione ho collaborato con Christopher Griffin per le stampe, mentre in passato ho accompagnato i miei abiti con gioielli d’autore di artisti come Giorgio Vigna o Ai Weiwei. Penso che la moda sia una buona piattaforma per esprimere questa convergenza, che fa parte dell’identità italiana come di quella haitiana.

V: Come traduci l’ethical fashion attraverso i materiali?

SJ: Utilizzo materiali naturali, come cotoni bio, oppure vado alla ricerca di lavorazioni particolari. Uso molte stoffe, che non ho più abbandonato dal mio primo viaggio in Burkina Faso, piuttosto costose, perchè sono fatte con il telaio a mano. Se ci fermassimo a riflettere sulla corrispondenza tra un centimetro di stoffa e un passaggio manuale al telaio, ci renderemmo conto di quale tesoro possono essere i vestiti che indossiamo. Al contrario ci troviamo dentro ad una voragine, dove veniamo spinti ad acquistare oltre il necessario, a rivendere ciò che accumuliamo, per comprare nuovamente. La moda oggi coincide con un atteggiamento bulimico e compulsivo, mentre ogni abito può essere una storia, che vale la pena di essere raccontata e capita, perchè c’è la vita dentro.

V: Come guardi alla donna, tra maschile e femminile, in una società di migrazioni più o meno fortunate, nel lavoro o da un punto di vista estetico?

SJ: Non ho una donna ideale anche se ogni collezione ha la sua musa, ma non si tratta mai di donne da red carpet. La mia eroina dell’infanzia era Rigoberta Menchú, ricordo il valore del suo attivismo che si traduceva anche nella volontà di mantenere i propri usi e costumi, di mostrarsi al pubblico in abiti tradizionali. Quindi non è un discorso che riguarda la fisicità. La donna a cui parlo non ama semplicemente la bellezza, direi che è curiosa di conoscere la storia che si nasconde dietro a un capo di abbigliamento.

V: La sfilata è un momento importante, in cui la perfomance prende il posto della parola. Che cosa rappresenta per te?

SJ: Comincio sempre con un urlo, una registrazione degli Anni Sessanta, che funge da “chiamata alle armi”, perchè una collezione racchiude idee, emozioni e professionalità. Quella de Las Cholitas Luchadoras, della primavera-estate 2018, è iniziata con un video, per spiegare il dialogo con un’altra cultura e i suoi costumi. La scelta stessa della musica, Let The River Run, il tema di Working Girl, voleva avvicinare le storie delle donne che lottano in Bolivia, a quelle delle donne occidentali nel loro percorso di emancipazione.

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