È stato presentato al Tribeca Film Festival di New York, ha aperto la quinta edizione del Fashion Film Festival di Milano, fondato e diretto da Costanza Cavalli Etro, il documentario “McQueen” di Ian Bonhôte e Peter Ettedgui con la colonna sonora di Michael Nyman. La recensione.

Still da McQueen, Ian Bonhôte e Peter Ettedgui.

Un mondo dove gentilezza, romanticismo, perversione, macabro e grottesco convivono. Un immaginario in costante metamorfosi. Una mente che non conosce confini, se non quelli del turbamento interiore. Chi è Alexander McQueen? L’hanno definito l’“hooligan della moda inglese”, misogino, enfant terrible. In molti affermano di averlo scoperto, ma come tuona il documentario di Ian Bonhôte e Peter Ettedgui a lui dedicato: “Nessuno ha scoperto Alexander McQueen. Alexander McQueen ha scoperto se stesso”. Presentato in anteprima al Tribeca Film Festival di New York, “McQueen” (questo è il titolo) ha aperto la quinta edizione del Fashion Film Festival Milano, con un interessante approfondimento sulla vita, oltre che sulla carriera, di uno dei designer che ha cambiato la moda e il lusso tra la metà degli Anni Novanta e i primi Duemila.

Still da McQueen, Ian Bonhôte e Peter Ettedgui.

Entrato alla conduzione di Givenchy a soli ventisette anni, nello stesso periodo dei fortunati sodalizi di Tom Ford con Gucci e John Galliano con Christian Dior, Lee Alexander McQueen è un personaggio che ha lasciato un grande vuoto, in seguito all’inaspettato suicidio alla vigilia del funerale della madre. La sua storia viene raccontata nel documentario attraverso la voce di familiari, amici e stretti collaboratori. Nessuna star: Lady Gaga, Rihanna, Sara Jessica Parker, nessun volto istituzionale della moda, solo le persone che lo hanno conosciuto più da vicino, con le loro testimonianze accorate, i loro sorrisi, aneddoti e ricordi spesso interrotti dal pianto. Dagli inizi in Savile Row, apprendistato fortemente voluto dalla madre che credeva ciecamente nel suo talento manifestato sin dall’infanzia, all’esperienza da Romeo Gigli, che durante la serata inaugurale ha raccontato nuovamente, divertito, di quel ormai iconico “Fuck You” lasciato scritto nella giacca, fino alla creazione del suo marchio, alla scelta “più posh” del suo secondo nome Alexander, come l’ha definita il suo mentore Isabella Blow.

Still da McQueen, Ian Bonhôte e Peter Ettedgui.

“Se vuoi conoscermi, guarda il mio lavoro” è l’affermazione che mette ordine all’enorme quantità di materiale di archivio e testimonianze. Il documentario infatti è suddiviso in cinque capitoli, che prendono il nome dalle sfilate più memorabili, restituendo quella visione autobiografica della moda attraverso cui ha espresso i suoi sentimenti più intimi e oscuri. Vittima di abusi da parte del marito della sorella, nelle sue collezioni violenza e sessualità si sono spesso accompagnate, dagli esordi con Jack the Ripper Stalks his Victims, alla celebre Highland Rape, che gli è valsa l’accusa di misoginia, dove modelle dalle chiome disfatte e abiti strappati hanno sfilato in una passerella cosparsa di rovi. Una bellezza selvaggia, per citare il titolo della mostra a lui dedicata dal V&A Museum, che assegna un nuovo potere alla donna, notturna, inventiva, drag, come testimoniano le sue frequentazioni del Taboo di Leigh Bowery. Perché come affermava lui stesso: “Voglio che proviate repulsione o eccitamento (…). Se ve ne andate senza avere provato emozioni, significa che non ho fatto bene il mio lavoro”.

 

Recensione pubblicata su Artribune.