“Fight for Your Right (to Party)” cantavano i Beastie Boys nel 1986. Scopriamo chi questo consiglio l’ha trasformato in una filosofia di vita, ai confini tra sogno e realtà.

Una volta oltrepassato quel cancello sembra di trovarsi in un’altra epoca, addirittura in un altro pianeta, ma non è così, ci troviamo nella tranquilla cittadina di Sant’Arcangelo, nel bel mezzo della Romagna. Siamo entrati nel piccolo stato libero di Mutonia. Lo shock è forte: si passa improvvisamente da un mondo di «S» grasse, Sangiovese a fiumi e torme di turisti, a uno di quasi marziani dai capelli verdi, immersi in un’atmosfera woodstockiana, dove gli abitanti sono indaffarati a costruire, inventare, progettare con pezzi di ricambio e ciarpame riciclato. Qui è tutto ribaltato: prospettive, punti di vista, oggetti, come se fosse passato un ciclone a gettare le cornette dei telefoni sugli alberi e ad accatastare frammenti di camion e aerei gli uni sugli altri. Ma per capire questa nuova dimensione è necessario fare un passo indietro.

Hometown Mutonia, documentario di ZimmerFrei. Still da video.

Inghilterra Anni Ottanta, il thatcherismo inginocchia la nazione e fa rivoltare animi e stomaci. In questo trambusto Joe Rush e Robin Cooke canalizzano i conflitti in qualcosa di nuovo: nasce la Mutoid Waste Company. Ironia della sorte, ci troviamo nello squat chiamato Apocalypse Hotel, e quell’aura apocalittica i Mutoidi non l’hanno mai abbandonata. Arte anarco-punk, recupero creativo o cumuli di rottami: le loro creazioni sono state etichettate in mille modi. La prima apparizione ufficiale avviene nel 1987 al Glastonbury Festival. Da questo momento la loro fama inizia a crescere senza fermarsi, in sinergia con la cultura rave e i party illegali. Nel 1989 comincia la vita on the road, un tour che li porta nelle principali città europee: Berlino, Amsterdam, Parigi.

 

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I primi a organizzare i garage party e a decorare le feste degli Spiral Tribe. L’invasione diventa leggenda, come le loro gigantesche sculture saldate. “Mutare e muoversi è il nostro credo” così recita il loro manifesto. Avanguardisti e riciclatori, la loro estetica di recupero si mescola con una sensibilità post-apocalittica, a metà strada tra Mad Max e Blade Runner. Una visione distopica che nasce dal caos e diventa qualcosa di più: una filosofia di vita o semplicemente una palestra per essere pronti e indipendenti in caso di catastrofe? Eppure questo nomadismo a lungo andare stanca: è il 1991 quando Joe e altri Mutoidi approdano a Rimini. L’Italia, lontana dalla rigidità britannica, li accoglie a braccia aperte e il sindaco del luogo gli offre un ex cava dove insediarsi.

 

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Nasce Mutonia. Quando la attraversi, chiedendoti se si tratti di un sogno o di un’allucinazione, ogni tanto trovi degli indizi che ti riportano alla realtà: come il distributore automatico della Coca-Cola installato nel bar, o i turisti che vagano, famigliole in gita, giornalisti e curiosi, con lo sguardo scettico e dubbioso, che si chiedono se possono fotografare, riprendere, parlare. Tutti a Mutonia sono accettati, nessun divieto è imposto, se non quello di entrare nelle abitazioni dei Mutoidi, desiderosi di un po’ di privacy fra tanta anarchia dichiarata e applicata. Grattando via la superficie un po’ dura e polverosa, anche i Mutoidi sono persone comuni: meccanici, elettricisti, persino qualche ingegnere. Saldano e montano. Con la differenza che qui, le creste gialle hanno preso il posto delle tuta blu.

BREVE INTERVISTA A STRAPPER E DEBS

“L’arrivo a Mutonia è stato semplice. Anche se ora è tutto diverso e il campo non lo chiamiamo più così” dice Strapper, uno dei fondatori. In qualche ora racconta tutta la storia della Mutoid Waste Company: dalle prime fabbriche occupate, ai festival in giro per il mondo, da Berlino, prima e dopo il muro, alla Spagna, dove incontrano il loro “ponte” per Sant’Arcangelo. “Inizialmente, come per molti altri dissidenti nella Londra thatcheriana, il nomadismo era uno stile di vita totale. Un modo per prendere le distanze da una società che imponeva un unico modello. Ma anche l’unica soluzione praticabile dopo l’abbandono del paese a causa della forte repressione che segnò la storia delle controculture britanniche. Fu così che iniziammo a viaggiare per l’Europa e a farci conoscere come artisti cyberpunk”. Un’etichetta mai realmente scelta, ma che deriva dall’aspetto delle loro creazioni.

“L’arrivo in Romagna coincise con una delle tante mutazioni. Avevamo bisogno di stabilità per far crescere la nostra arte” sottolinea Debs, anche lei parte del gruppo dal ‘92. “Le creste gialle si sono trasformate in capelli bianchi e più di duecento persone hanno fatto parte della Mutoid. Mutare è il nostro credo e oggi anche lo stile è molto differente. Noi continuiamo con le sculture in ferro o plastica, ma c’è chi ha iniziato a usare materiali più soft come la pelle e il tessile”. Quella che un tempo era una comunità compatta ora appare come un piccolo paese, composto da più generazioni, mondi ed estetiche. E che ne è stato del punk? Debs apre l’album dei ricordi: istallazioni e costumi da far invidia a qualsiasi moda. Poi lo richiude e sorride. “Tutto deve cambiare”.