Come e quando è nato il progetto di Eternally Frozen?

È stato concepito durante il Covid, a partire dal mio desiderio di collaborare con un trio di fiati. Con il trombonista avevo già suonato e registrato del materiale per dei pezzi su cui sto ancora lavorando. Successivamente ho fatto un’application per dei fondi per chi si occupa di musica e mi hanno finanziato il progetto.

Il concept da dove parte?

Il concetto che sta alla base dell’album è il frutto della mia fascinazione per una storia, di cui sono venuto a conoscenza in un piccolo museo di Los Angeles, The Museum Of Jurassic Technology. Prima di tutto mi ha colpito l’estetica del luogo, molto romantica, esoterica, ottocentesca. Poi la storia fantastica di un pipistrello capace di attraversare la materia grazie all’ecolocazione. Nel mito, a un certo punto, il pipistrello rimane intrappolato in un muro di piombo. Questa immagine per me traduceva perfettamente il concetto di eternità che, trasposto in musica, mi ha spinto a esplorare il canone, che a sua volta, per via della ripetizione di moduli all’infinito, è una rappresentazione sonora di questo concetto.

 

https://www.youtube.com/watch?v=i6mDsM59AeE&list=OLAK5uy_lKL31RxDVVXAL7zT4rqcS7bNtOiZCmSrA&index=2

 

Se penso al canone, in virtù del mio background, vado immediatamente all’architettura. Potresti approfondire più in dettaglio in che cosa consista in musica?

È una frase musicale, una melodia, che viene ripetuta in diversi momenti della sua estensione. L’esempio più noto è Fra Martino a quattro voci. La sovrapposizione della stessa melodia in diverse posizioni crea questa sensazione di moto perpetuo, circolare. Si tratta di una forma musicale antica ma è stata utilizzata anche da molti compositori contemporanei, minimalisti soprattutto. 

Come può una forma fissa dialogare con l’improvvisazione? Conoscendo il tuo percorso musicale non credo si tratti di un album di pura composizione, è così?

Esattamente, ho scritto delle composizioni molto semplici, ho dato delle indicazioni e abbiamo improvvisato molto. Questo tipo di forma musicale non esclude l’improvvisazione. Anzi le parti in cui ho scritto meno, dove non c’è uno spartito troppo preciso, sono diventate le più interessanti. 

In che modo sei passato dall’essere un musicista a dirigere un Ensemble, senza venir meno alla tua presenza sul palco?

Stare sul palco e suonare insieme ad altre persone è nel mio dna, per cui la mia presenza è stata imprescindibile. Magari un giorno proverò a comporre qualcosa per qualcun altro senza suonare, però questa volta ho scelto la strada più impegnativa, ovvero: cercare di tenere insieme i due ruoli. Va sottolineato che i musicisti con cui ho lavorato sono vicini alla mia sensibilità, al mio modo di combinare l’improvvisazione e la composizione. 

 

Andrea Belfi. Foto: Roberto Brundo.


Quindi c’è stata molta libertà, non hai imposto dei vincoli rigidi?

La libertà è stata pressoché totale. Avevo in mente diverse cose, alcune hanno funzionato, altre no. Gli errori e le difficoltà di comunicazione mi hanno spinto a semplificare e ad impiegare un modo di comunicare che non avevo mai usato prima, ovvero scrivere delle linee guida che potessero essere quasi una forma poetica. Forse l’unico vincolo che mi sono dato, è stato cercare di riportare questo esperimento all’interno del mio universo sonoro. Mantenere una coerenza col mio lavoro, anche se per la prima volta stavo utilizzando degli strumenti a fiato. Quindi ho lavorato su un certo tipo di ritmica e timbri elettronici più affini al mio discorso precedente. 

L’identità è punto chiave. Riportando questa riflessione all’album, ci siano due tracce, Setteottavi e Golden, che sono totalmente tue. Ti ritrovi in questa osservazione?

Mi fa piacere che tu l’abbia notato, perché sono i due pezzi in cui mi riconosco di più. 

Concretamente però in che modo hai ricondotto un progetto con strumenti a fiato alla tua identità? Sei intervenuto prevalentemente su percussioni e sintetizzatori, utilizzandoli come “collante”, oppure sei riuscito ad avvicinare il suono degli ottoni al tuo?

C’è stato un lavoro di elettronica prima di tutto. Nel senso che ho introdotto i suoni che ho sviluppato nel corso degli anni e ho spinto su soluzioni che ho utilizzato in altri lavori. Sicuramente gli ottoni hanno un suono diverso, non li avevo mai usati, non fanno parte del mio background, però è stato possibile anche grazie alla post-produzione armonizzare questo progetto con la mia identità. Anche perché l’album l’ho prodotto io. Forse un dettaglio che può risultare interessante è che gran parte dei pezzi sono delle registrazioni di un live. Lo sottolineo perché il lavoro di post-produzione su una registrazione live è piuttosto inusuale. Le registrazioni in studio sono molto più precise, chiare e malleabili, mentre quelle live danno spesso diversi problemi.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Z6nOwmjP2oA

 

Immagino dovuti allo spazio, come il riverbero, o anche in fase di missaggio…

Esattamente. Eppure tre su cinque sono registrazioni di un live. Ammetto che ho fatto diverse registrazioni in studio ma quando abbiamo fatto il concerto alla fine di questo progetto, non c’era paragone. Alcuni pezzi erano stati suonati molto meglio dal vivo. Senza nessuna preoccupazione di stare sul metronomo, con maggiore tranquillità e libertà espressiva.

Poco sopra hai accennato al potenziale creativo dell’errore. Sono pienamente d’accordo ma occorre essere lungimiranti e intuitivi per riconoscerlo e utilizzarlo. Che cosa ne pensi?

Cerco di utilizzare creativamente un aspetto della mia personalità che amo e odio, cioè farmi molte domande. Spesso tra gli improvvisatori radicali, o anche tra i jazzisti, utilizzare l’errore e ripeterlo, ha consentito di scoprire un nuovo suono. Per questo motivo anch’io cerco di tenermi aperto al suo utilizzo come strumento creativo, per capire se sia in grado di portarmi altrove. In questo progetto c’è stata una fase in cui avevo arrangiato buona parte del materiale in maniera molto morriconiana, quindi il risultato era più ricco. Dopo un paio di settimane mi sono reso conto che era stucchevole e ho abbandonato quella strada. Questo processo di post-produzione esagerato mi ha permesso di realizzare che ci voleva più semplicità. 

Quando si parla di improvvisazione si può fare riferimento a diversi stili?

Numerose sono le teorie che riguardano l’improvvisazione, che però è improvvisazione punto. Anche Mozart scriveva delle partiture in cui c’era spazio per l’improvvisazione, anche se non conosciamo molto questo aspetto della sua musica. L’improvvisazione spesso è radicale, che significa che non c’è niente di scritto e uno o più musicisti improvvisano da zero. Certamente se ci sono dei musicisti jazz si sa dove andranno a parare, o se ci sono degli improvvisatori di area free jazz si sa piuttosto bene che probabilmente non ci sarà ritmo, che il suono sarà più astratto. Diciamo che ci sono delle linee guida che costraddistinguono il genere e la scena musicale. Per cui potremmo dire che ci sono degli “stili” di improvvisazione che riguardano il mondo del jazz, della musica elettronica o di quella contemporanea. Ci sono poi compositori che lasciano tantissimo spazio all’improvvisazione, già da quando scrivono. 

 

Andrea Belfi. Foto: Roberto Brundo.


Ennio Morricone ed Egisto Macchi sono un riferimento per questo album. Stiamo parlando di musica che ha un forte carattere narrativo. Hai affinità con questa componente?

La questione narrativa è alla base di tutto il mio discorso musicale, anche come batterista. Portare l’ascoltatore da un posto ad un altro è uno degli aspetti che mi interessa di più. Di Morricone mi affascinano soprattutto i suoi percorsi, i suoi viaggi, quell’aspetto cinematico e mentale che anche per me è fondamentale. Mi piacciono parecchie colonne sonore, per questo motivo mi sento vicino a lui. Quando devo cercare l’ispirazione prendo uno dei suoi dischi a caso! Anche se ne ho alcuni che conosco a memoria.

Mi riferivo anche alle tipologie di suoni, non solo alla dimensione narrativa…

Sì, c’è anche l’aspetto dinamico, che è importantissimo; del timbro e del lasciare spazio. Lavorare sulla densità e sulla rarefazione, sul volume quanto sulla dinamica, sui piani e sui forti. Cioè utilizzare quegli elementi che semplicemente arricchiscono la musica. A livello di timbrica c’è una certa direzione, l’insistere su un certa idea di archi per esempio oppure su suoni sporchi di elettronica. Per cui direi che quei due compositori sono un riferimento ricorrente. 

Quando parliamo di componente narrativa facciamo riferimento all’aspetto del viaggio sonoro?

Esattamente. 

Il tuo stile come batterista è minimalista. Perché hai scelto questa strada rispetto a ciò che caratterizza i batteristi nell’immaginario più comune, ovvero una carica energica ed emotiva molto forte? 

Spesso mi piace andare contro corrente. Da ragazzino ho cominciato col punk e con l’hardcore. Sono cresciuto interiorizzando l’idea del Do It Yourself, ossia dell’andare alla ricerca di un linguaggio proprio. Per cui mi affascinano i musicisti con un linguaggio molto personale. Fra i batteristi mi sono dedicato all’esplorazione più dell’ambito jazz, quello metallaro non mi è mai interessato più di tanto. Ho sempre guardato a musicisti con uno stile inconfondibile, cosa che spesso significava non fare riferimento a batteristi cosiddetti “muscolari”. Mi piacciono quelli capaci di raccontare storie, quelli più liberi anche nel pop, quelli che riescono a portarti da qualche parte.

Tempo addietro ho intervistato Oren Ambarchi e anche lui aveva posto l’accento sulla ricerca dello stile personale.

Oren è stato senza dubbio uno dei musicisti che ho seguito di più. 

 

https://www.youtube.com/watch?v=1WN83Yf3Ojs&list=OLAK5uy_lKL31RxDVVXAL7zT4rqcS7bNtOiZCmSrA&index=1

 

Torniamo all’album. Pastorale è la traccia che si discosta di più dalle altre, anche per la presenza delle voci. Perché includerla?

È stata una casualità. A fine progetto ho iniziato ad occuparmi del missaggio di Eternally Forzen e ho avuto l’occasione di lavorare con questo ensemble che si chiama Kaleidoscope. Sono un gruppo di violinisti, suonano tutti gli archi, e mi hanno invitato a fare un workshop, presentando i miei lavori, per suonare insieme e per conoscerci. Io ero fresco da questo progetto e gli ho proposto di fare una cosa analoga. Gli ho dato le stesse composizioni e li ho invitati a suonarle. Ho documentato tutto con un registratore digitale, poi abbiamo provato ad introdurre anche le voci perché una delle caratteristiche di questo ensemble è che loro performano dal vivo, non propriamente come i danzatori, ma con delle coreografie, per cui suonano il violino, cantano e si muovono nello spazio. Quando abbiamo provato col coro sono rimasto molto colpito. Così ho preso quella registrazione e l’ho introdotta nell’edit che stavo meticolosamente mixando. Poi ho rifinito il tutto. Mi sono posto qualche domanda sulla coerenza e mi sono risposto che non necessariamente deve essere assoluta!