In occasione dell’uscita del nuovo album su Mute, lo scorso 11 giugno, abbiamo chiacchierato col musicista e compositore di origini italiane, noto ai più per le sue collaborazioni con i Nine Inch Nails, che gli hanno permesso di guadagnarsi un posto nella Hall of Fame del rock, ma molto amato internazionalmente e nel nostro paese anche per il suo percorso solista. Ripercorriamo in questa lunga intervista la sua storia, la sua musica, tra miti dell’infanzia e cambi di rotta dell’età adulta, tracce e album che l’hanno in un certo modo iconizzato.

V: Sei partito da Forlì per approdare a Los Angeles per studiare al famoso Musicians Institute. Possiamo considerare questa esperienza come uno spartiacque tra un trascorso musicale più legato al rock e un altro percorso orientato ad una musica più astratta e ai sintetizzatori? Ammesso che si tratti di un passaggio avvenuto in quel momento. 

AC: Certamente ha richiesto più tempo. Da quando avevo undici anni ho sempre suonato la chitarra. I chitarristi sono stati i miei idoli ed ero convinto di voler intraprendere quella strada. Già in Italia però mi ero avvicinato alla musica elettronica. Quindi avevo, in un certo senso, oltrepassato il rock, tanto che quando sono arrivato a Los Angeles ho acquistato subito un portatile. Ho capito che la chitarra non era lo strumento a cui volevo dedicarmi quando ho cominciato le lezioni. Ho studiato con i migliori insegnanti del genere, ma quando tornavo a casa e venivo lasciato a me stesso, dopo aver fatto gli esercizi, non la suonavo, ma mi dedicavo alle mie composizioni, dove la chitarra spesso non c’era. Ho avuto bisogno di tempo per accettarlo, ma a livello espressivo ero più soddisfatto quando mi dedicavo alla composizione elettronica. Non sono mancati i sensi di colpa, perché l’investimento di tempo, vita ed economico era stato importante, ma la mia fortuna è stata vivere negli gli Stati Uniti, un contesto in cui si è più liberi di scegliere ciò che si vuole fare, chi si vuole essere o provarci da un punto di vista professionale. Io avevo un background italiano, quindi inizialmente mi sono sentito vincolato dall’idea di dovermi realizzare nel campo per il quale avevo studiato. Secondo questo ragionamento, non avendo mai studiato tastiere e sintetizzatori, non avrei potuto e dovuto sostenere un’audizione per i Nine Inch Nails. La verità è che ognuno di noi riesce in ciò in cui si sente più creativo. Dove si riscopre bambino.

Alessandro Cortini. Photo: Emilie Elizabeth.

V: Trovare se stessi non è mai un percorso lineare.

AC: Esatto. Ogni tappa ti consente di apprendere qualcosa che ti aiuterà a sviluppare il tuo dialogo, la tua voce. Si è trattato, come dicevo, di un passaggio molto graduale, una meta che vedevo ma non sentivo. Con Ghosts dei NIN però è avvenuto un cambio di rotta importante. Ho iniziato con loro a fare musica strumentale e ho capito che avrei potuto dedicarmi esclusivamente a quello, estrapolandola da qualsiasi altro contesto o progetto.

V: L’“orecchiabilità” della tua musica, così l’hai definita in un’altra intervista, è istintiva, non propriamente conscia o ricercata?

AC: Non so se sia propria della sfera del subconscio, istintiva sicuramente sì. Ho passato l’infanzia con mia madre che ascoltava i Beatles tutto il giorno. Probabilmente ho cominciato a sviluppare da bambino la mia sensibilità per la melodia. Inoltre crescere in Italia ha ampliato la mia cultura musicale. Negli Stati Uniti se ti interessi a un genere difficilmente ascolti altro, mentre dalle nostre parti si ascoltava tutto ciò che era bello. Direi quindi che l’attenzione alla melodia, al di fuori del contesto della canzone, è il risultato del mio background italiano.

V: Tra le tue influenze c’è anche un immaginario sonoro legato agli Anni Ottanta. A quel modo di utilizzare i sintetizzatori. È così?

AC: È stato un periodo fondamentale. Ricordo il primo walkman, le prime cassette con i Duran Duran, gli Arena, gli Spandau Ballet, i Depeche Mode, i Pet Shop Boys, i New Order. Gli Anni Ottanta musicalmente sono stati questo. Per me soprattutto: l’entusiasmo provato da bambino e l’opportunità che ho avuto, grazie al mio lavoro, di riconnettere molti punti in seguito.

Scuro Chiaro cover. Mute, 2021.

V: Un certo approccio minimalista, o meglio, orientato alla riduzione nella composizione musicale e all’importi dei limiti nell’utilizzo degli strumenti, è il risultato della tua formazione o di scelte più legate a un’attitudine?

AC: Si tratta di scelte che implicano una presa di posizione, che non è avvenuta a monte, bensì è stata la conseguenza di una circostanza ben precisa: l’aver sincronizzato tutti gli strumenti dello studio, in occasione della produzione di Forse, ed essermi accorto che quella situazione, così professionale, mi rendeva creativamente improduttivo. Ho cominciato a divertirmi e a scrivere quando ho provato a rimuovere uno strumento portandolo nel terrazzo. Recuperare un approccio più ludico con la macchina si è rivelato fondamentale. Divertirsi, non pensare alle responsabilità professionali di certe scelte, aiuta ad esprimersi con maggiore libertà.

V: I luoghi in cui hai vissuto hanno avuto un impatto su di te musicalmente parlando?

AC: In parte sì, penso a Berlino per esempio. Il luogo in cui ti trovi ti autorizza, in un certo senso, a continuare un discorso musicale affine. Los Angeles ha sempre rappresentato una pausa tra una tournée e l’altra. Occupavo il tempo producendo colonne sonore, mentre a Berlino mi sono sentito più legittimato come artista. Ora in Portogallo faccio musica in un garage, vivo in mezzo al nulla, diventerò padre a breve, ho raggiunto un mio equilibrio, che prescinde dal luogo in cui vivo. Anche se da un punto di vista artico-creativo la sedentarietà non aiuta. Spostarsi, cambiare, consente di processare nuovi stimoli.

V: Il tempo in musica. Te lo chiedo da amante del cinema, un contesto narrativo in cui la temporalità non è più lineare da molto. Che cosa accade nella musica? C’è la possibilità di differenziare il tempo in senso oggettivo, soggettivo o onirico?

AC: Due sono le concezioni del tempo secondo me: quella che riguarda la composizione singola e l’album. Quando scrivevo canzoni, c’era sicuramente la volontà di catalogarle a livello temporale, perché attraverso le parole è più facile circoscrivere un momento o un periodo della vita. Per quanto possa essere astratto il testo viene data comunque una chiave di lettura all’ascoltatore. Mentre se parliamo della traccia singola, a livello strumentale, la sua percezione e interpretazione è molto più personale. Posso attribuirla in maniera vaga a un periodo, ma riguarda principalmente l’espressione di uno stato d’animo. Quindi l’ascoltatore è più libero di farla propria o di rispondere su un piano individuale. L’album invece segna delle tappe. Se penso ad Avanti, si tratta di un lavoro piazzato in un certo periodo della mia vita, sia per la narrazione che esplicita sia per il momento in cui l’ho fatto uscire. Ne sono molto orgoglioso, vi sono molto legato, ma un album del genere non lo farò più, sia perché quel tributo alla mia famiglia l’ho già fatto, sia perché sono un’altra persona. Volume Massimo e Scuro Chiaro sono invece album simili, basati su discorsi musicali simili. Un album è come un collage o una ricetta, gli ingredienti possono provenire da luoghi e periodi diversi, ma insieme acquistano un senso, e diventano ciò che voglio presentare di me in un dato anno.

 

https://www.youtube.com/watch?v=H74JhRzCPC4

 

V: Scuro Chiaro ha risentito del periodo che abbiamo vissuto?

AC: L’anno che abbiamo passato per me non è stato facile, per la pandemia ma anche perché ho perso mio padre. Non mi sono quindi sentito molto ispirato a creare da zero, bensì più orientato a riscoprire ed analizzare materiale che avevo prodotto negli ultimi due, quattro anni e fare in modo che una volta scelti i pezzi stessero bene insieme. Ho l’abitudine di registrare tutti i giorni e quindi archivio molte idee. È un modo di concepire un album molto diverso da Avanti, Sonno o Risveglio dove le composizioni facevano tutte parte dello stesso periodo o processo.

V: In realtà io vedo una relazione tra Scuro Chiaro, Sonno e Risveglio come atmosfere. Non parlo di processo creativo perché da quel punto di vista mi pare più vicino a Volume Massimo, che credo sia un album con il quale tu abbia intrapreso una nuova direzione, molto più ricca e stratifica. Sul piano sonoro però Volume Massimo sembra più brillate, mentre Scuro Chiaro più introspettivo e cupo, per questo motivo lo ricollego agli altri due.

AC: Scuro Chiaro parte da due composizioni realizzate per Volume Massimo: Chiaroscuro e Lo Specchio, che però non erano in linea con quell’album. È probabile che l’evoluzione più ruvida, meno levigata di Scuro Chiaro, rispetto alla brillantezza di Volume Massimo, sia dovuta emotivamente all’anno appena trascorso. Per quanto Volume Massimo sia un album istintivo, risente di una certa consapevolezza nel voler fare un lavoro un po’ più brillante a livello di frequenze, essendo un biglietto da visita per un’etichetta come Mute.

V: Passiamo alla parte visiva. Hai fatto uscire tre video molto belli a cura di Marco Ciceri. Com’è stata questa collaborazione?

AC: Trovo che Marco abbia manifestato immediatamente una grande simbiosi con la mia musica. Sono una persona a cui piace essere stimolata da un medium che non è il proprio e sono propenso al dialogo. Con Marco però non ce n’è stato bisogno, perché ha presentato delle proposte che erano molto lontane da quello che avrei potuto immaginare. Anzi, per me impensabili, ma capaci di valorizzare enormemente la mia musica. Motivo per cui sono molto eccitato all’idea di una collaborazione futura che parta da zero, perché in questo caso il suo lavoro è sopraggiunto in coda a composizioni già realizzate.

 

https://www.youtube.com/watch?v=FwaxQho_65g

 

V: I titoli delle tue tracce sono evocativi. Li assegni con un criterio concettuale o emotivo?

AC: Sono delle immagini, non hanno un valore descrittivo, devono essere uno spunto per ciò che associo a livello emotivo. Faccio un esempio: Gloria, che è una composizione di Forse, e Momenti di Volume Massimo, sono due titoli che uniti richiamano Momenti di gloria, che è un film con la colonna sonora di Vangelis. Il tema è molto famoso. Se lo ascolti e riascolti le mie due tracce troverai una connessione a livello di umore ed emotività. Gloria in particolare è epico e risente di questa pomposità, di questo peso melodico esplicito, molto Anni Ottanta, che ai tempi lo si ritrovava nelle colonne sonore, nelle pubblicità, nelle canzoni. Una sensibilità che credo si sia un po’ smarrita.

V: Non tutta la musica può essere definita cinematica, perché magari è troppo sperimentale o spezzata per accendere l’immaginazione. La tua musica invece ha questa proprietà. Si tratta dell’influenza della melodia degli Anni Ottanta o delle colonne sonore?

AC: Ci sono molte colonne sonore che hanno avuto un impatto su di me. Il tema di Top Gun, per esempio, una colonna sonora memorabile, che magari associamo a un film che ora ci fa sorridere, ma che testimonia lo spirito del periodo. Oggi è più difficile realizzare composizioni del genere, ci si concentra più su altri aspetti che le rendono più complesse oppure viene dato meno peso alla musica.

V: La riconoscibilità, l’identità della tua musica, come le ottieni?

AC: La mia “voce” è basata sulla grammatica dello strumento, che mi permette di essere espressivo. Nei diversi album le variazioni sono dovute agli strumenti che utilizzo, ma si tratta sempre di me.

V: Con quale scopo hai creato lo Strega?

AC: È nato da una collaborazione con amici. Non tanto dalla volontà di copiare strumenti esistenti o di fare un Frankenstein, ispirandosi a diverse componenti di quegli strumenti, bensì ho iniziato ad indagare in che modo mi comportavo in relazione agli elementi tecnici. Come dicevo prima, la grammatica di uno strumento mi permette di comportarmi in una determinata maniera. Quindi ho analizzato i processi per progettarlo.

V: In Scuro Chiaro l’hai utilizzato?

AC: Sì, perché avevo i prototipi e ho colto l’occasione di provarli. È in diverse parti dell’album, un po’ come una spezia.