Cosa è successo alla musica a partire dagli Anni Settanta? Perché nel rock sono comparsi i lustrini e perché a un certo punto non si capiva più se a cantare – anzi, a performare – fossero uomini o donne? Da David Bowie a Leigh Bowery, passando per Alice Cooper e Marilyn Manson, ecco la storia di una magnifica crisi di identità.

Nel suo breve ma celebre saggio, Dress Code. Sincretismi cultura comunicazione nella moda contemporanea (2005), Ornella Kyra Pistilli ci ricorda che il corpo è il più importante elemento simbolico di marcatura dell’identità. Il corpo vestito viene codificato da indumenti, accessori, make up e pose, introducendo un concetto del ‘chi sono io’ che si allontana tanto dalla pretesa di autenticità e naturalezza degli Anni Sessanta – con riferimento alla nudità di John Lennon e Yoko Ono sull’album Unfinished Music No.1: Two Virgins – quanto dalla visione dell’Io del Settecento o del Romanticismo, per avvicinarsi a un’interpretazione in cui convergono dandysmo, società dello spettacolo e moda.

Still da Imagine, John Lennon e Yoko Ono.

L’identità intesa come persona non è però una conquista recente. Nel suo saggio sul concetto di persona nelle culture occidentali, La nozione di persona. Una categoria dello spirito (1938), Marcel Mauss afferma che con questo termine s’intende l’avere un nome, l’essere qualcuno, il definirsi in relazione a una serie di riferimenti prevalentemente stabili. Quando questo sistema cristallino di identificazione viene meno, che cosa succede? La persona smette di essere Io e torna maschera. Non è un caso che Eric J. Leed, ne La mente del viaggiatore (1991), metta in relazione la libertà creativa dell’identità in viaggio con quella dell’attore. Siamo i personaggi e i costumi che indossiamo, visione assimilabile al richiamo goffmaniano de La vita quotidiana come rappresentazione (1959).

Marc Bolan, in concerto, 1973.

Questa premessa è utile per spiegare la nascita di un fenomeno che ha interessato la musica negli Anni Settanta, traghettando il rock verso il cosiddetto glam o glitter. Una presa di distanza dalla serietà del decennio precedente, a favore di una maggiore focalizzazione sugli aspetti della messa in scena, in accordo con un insieme di musicisti nati e cresciuti entro i confini della cultura popolare e televisiva e con alle spalle background relativi alle discipline dello spettacolo: il mimo e il vaudeville per David Bowie, o più in generale il cabaret – il film con Liza Minelli, il richiamo al fascino fascista di Susan Sontag e alla Berlino della Repubblica di Weimar di Christopher Isherwood – che ritroviamo a partire dagli Anni Novanta anche in Marilyn Manson. E ancora: il circo di P.T. Barnum per gli americani – si pensi agli Alice Cooper e allo stesso Manson (agli stessi, perché anche in questo caso il nome del cantante coincide con quello del gruppo, rappresentando una sorta di manifesto, unendo estetica e valori di due icone pop: Marilyn Monroe e Charles Manson); la tradizione francese del Grand Guignol tanto quanto il Rocky Horror Picture Show. Mentre per Marc Bolan dei Tyrannosaurus Rex, il primo vero cantante glam, con i suoi boa di struzzo (se si escludono Mick Jagger e i Rolling Stones , che rappresentano un’anticipazione): il fantasy, da J.R.Tolkien a C.S.Lewis, e soprattutto una concezione del corpo maschile soft, flessuosa, orientata all’androginia, e della sessualità in flirt con l’omoerotismo, la leziosità femminile o la bisessualità.

David Bowie, The Man Who Fell To Earth, Nicolas Roeg, 1976.

In alcuni casi c’è anche un esplicito riferimento alla sottocultura drag, con il suo immaginario cinematografico legato alle dive hollywoodiane del passato e all’esibizionismo di strada, che trasforma in wrecking il vecchio épater les bourgeois. Cunty e fishy sono due termini diffusi per mettere in discussione l’idea della donna, in relazione all’ambivalenza fisica delle drag queen, come i casi dell’assorbente coperto di ketchup lanciato sul pubblico, di cui racconta Esther Newton in Mother Camp: Female Impersonators in America (1972), o i frequenti richiami al parto nelle performance dell’undeground gay. Fenomeni che ci aiutano a interpretare questo orientamento allo shock, all’eccesso di stravaganza che, in personaggi come Leigh Bowery, ha coinciso con la fabulousity del clubbing londinese e newyorchese, dove il glamour ha raggiunto le vette del neodandysmo, dei “corpi pieni di occhi” che si consegnano all’arte, allo spettacolo e alla mercificazione della società di massa (Leigh Bowery è stato anche il protagonista di Paintings, uno spot per Pepe Jeans del 1989), come li ha definiti Massimo Canevacci in Sincretismi. Esplorazioni diasporiche sulle ibridazioni culturali (2004), tra paillette, lamé e trasgressione.

Still da Party Monster, Fenton Bailey.

Fabulousity. A night you’ll never forget… or remember! (2013) è appunto il titolo del catalogo curato da Ernie Glam che documenta, con le foto di Alexis Dibiasio, la scena newyorchese tra fine Anni Ottanta e primi Novanta, dei Club Kids, che “reinventarono lo spirito fai-da-te del punk rock e incorporarono la fantascienza e il circo per creare una scena che sembrava nuova ed eccitante”, come ricorda lui stesso su AnOther Magazine. Possiamo dire che alle radici del glam ci sia la democratizzazione della fama e i Festival dei lustrini della Factory di Andy Warhol, party dove tra pareti di specchi si lanciavano lustrini variopinti in acido. Da cui il nome di Silver Factory e il richiamo futuristico-fantascientifico che percorre il glam, fra incantata euforia e malinconica disillusione, per lo sbarco sulla Luna e i viaggi nello spazio. La dimensione favolosa si alimenta attraverso il culto della personalità, che è un altro dei suoi aspetti centrali (come più in generale del pop: basti pensare al meraviglioso libro fotografico di James Mollison The Disciples, che raccoglie una serie di ritratti di gruppo, realizzati fuori dai concerti tra il 2004 e il 2007, dove i fan posano vestiti come i loro musicisti preferiti, rendendo manifesto l’aspetto magico dell’aura della star, che riesce ad ammaliare a tal punto il suo pubblico dal presidiare una tribù modellata a sua immagine e somiglianza), essendo il glam un fenomeno innovativo e regressivo, capace di guardare al passato, alla grande macchina dei sogni hollywoodiana, e contemporaneamente al futuro, fino al soprannaturale, ai mondi popolati da elfi, spiritelli e folletti allegri, fondandosi sull’ossimoro.

Still da Paintings, Pepe Clothing, 1989.

Per David Bowie, se gli Anni Sessanta erano stati quelli del “negro bianco”, i Settanta dovevano essere quelli del “gay etero” e di un’aristocrazia che potesse essere venduta – è noto quanto Bowie parlasse di branding, seguendo i cambiamenti della moda per posizionarsi, e fosse attento alle trovate pubblicitarie, dalla fondazione della Società per la Prevenzione della Crudeltà contro gli Uomini dai Capelli Lunghi all’“invenzione” di essere gay –, realizzando a pieno, circa un secolo dopo, il decadentismo di Oscar Wilde: la reinvenzione di sé come opera d’arte della società di massa e la possibilità di trovare nello spettacolo il rifugio per il proprio bambino interiore. Quest’idea, soprattutto britannica – fatta eccezione per gli Alice Cooper, che vengono considerati gli artefici del rock teatrale e dello shock rock, ossia di una versione satirica della violenza insensata alla Arancia meccanica (1972) di Stanley Kubrick, e della tendenza a lasciarsi contaminare dalla cultura horror e pulp –, del rock come spettacolo e dei musicisti come artisti poliedrici, capaci di intrattenere nell’accezione più ampia del termine, è dovuta in parte al fatto che in Inghilterra, inizialmente, non era presente un circuito dedicato alla fruizione di questo nuovo genere musicale, e i gruppi rock si esibivano nelle music-hall, dove andavano in scena cabarettisti, giocolieri, addomesticatori di animali e ballerini.

Still da Women in Revolt, Andy Warhol, 1971.

Dall’altra parte dell’oceano è invece sempre la strada, secondo quella bulimia di traiettorie tipicamente americana, a fornire temi, personaggi e situazioni al glam rock. Un esempio è Walk on the Wild Side di Lou Reed, tratta dall’album Transformer (1972), che racconta il viaggio, da Miami a New York, di Holly – personaggio ispirato all’attrice transgender Holly Woodlawn, il cui nome è noto per la sua partecipazione a Trash (1970) e Women in Revolt (1971) di Andy Warhol – e della sua trasformazione da uomo a donna. Dimostrando come il glam fosse un crocevia di rimandi e di figure interni alla cultura pop.

 

Articolo pubblicato su Artribune e su Artribune Magazine #46.