La moda oggi è un campo polisemantico, luogo di molteplici sguardi e saperi, osservatorio privilegiato dei mutamenti del sociale. La sua complessità la sottrae alle definizioni esaustive, rendendo necessarie analisi incrociate, che rivelano la sua progressiva estensione dal corpo al mondo, in relazione alle nuove condizioni di vita della postmodernità, in cui trasporti e tecnologie creano infinite possibilità di essere altrove e altrimenti. Riflettere sulla moda significa prendere in considerazione non solo i suoi circuiti ristretti, la dimensione dell’effimero e del lusso, ma anche una pluralità di conoscenze, vite reali, immaginate, sognate e strategie di combinazione a-gerarchiche che la disseminano nel quotidiano, in cui l’estetica diventa la maniera privilegiata attraverso cui parlare del movimento, delle forme del sentire e dell’essere come apparire. Attraverso cui riscrivere il discorso su identità, appartenenza, comunità e territorialità. Il suo legame con la modernità, che è rintracciabile anche nella medesima radice etimologica (moda, moderno, dal lat. mos, modus, modo: maniera, foggia, novità), la pone in relazione con il mutamento della temporalità, con la progressiva estensione dell’ambiente umano e metropolitano su quello naturale, della ricerca e della conoscenza sin dentro ai corpi, che dalla genetica vengono trattati come pura informazione.

Louis Vuitton, concept store. Marina Bay Sands, Singapore. Photo: Taylor Simpson.

Da cui la complessità delle riflessioni che ispira, che non possono tralasciare le problematiche relative al controllo delle persone e dei territori e quelle che riguardano i loro miti, in un’epoca in cui numeri, bit, dna, segni, immagini e suoni divengono oggetto di manipolazione e ricombinazione. In cui le pratiche del Djing definiscono gli orizzonti della post-moda e del self-fashionig: della libertà come autocontrollo, auto-disciplinamento e scelta soggettiva. Dal momento che cultura, consumo, moda, metropoli, società, comunicazione e tecnologia si fondono, ridisegnando gli scenari in cui globalizzazione, localizzazione e ‘indigenizzazione’ si intrecciano, occorre interrogarsi sulle pratiche di vita e costruzione del soggetto che, sempre più dislocato, rappresenta se stesso e i suoi legami a partire dalla condizione di erranza. Situazione che determina la crisi di tutte le categorie interpretative e delle certezze della prima modernità. Va rilevato a tal proposito che, sebbene la moda abbia sempre avuto una vocazione comunicativa, spettacolare e pubblica, oggi l’estensione del termine di moda e del suo campo esprimono i mutamenti che riguardano l’irruzione e il primato della comunicazione e dell’immagine nelle società postmoderne e la nuova cultura del consumo che, facendo tutt’uno con la moda stessa, la trasforma a sua volta in comunicazione e immagine (Fiorani Eleonora, Abitare il Corpo: la Moda, pag.149).

Louis Vuitton Foundation, Paris, France. Photo: Alessio Lin.

“La moda – come sostiene Georg Simmelha la proprietà di rendere possibile un’obbedienza sociale che è nello stesso tempo differenziazione individuale” (Simmel Georg, in Marchetti Maria Cristina, Manuale di Comunicazione, Sociologia e Cultura della Moda, pag.28). Non solo, il fatto che le differenze si trasformino in sfumature definisce il mutamento di paradigma indotto dalla postmodernità, in cui i sistemi gerarchici entrano in crisi e le codificazioni prescrittive fanno capo alle scelte delle comunità, non più a quelle della società, lasciando al soggetto la possibilità di pensarsi liberamente, anche correndo il rischio del disagio di sentirsi costantemente indefinito, in merito a genere, status, ruolo, radicamento, costume, tradizione e società. Per questo motivo, l’androgino da tempo è diventato uno dei simboli più potenti della “non scelta” che anima ogni comportamento nella postmodernità: in cui dall’ambito professionale ai legami sentimentali l’imperativo dominante sembra essere quello di mantenere le opzioni aperte, rifiutando schematismi e chiusure, e collocandosi nello spazio intermedio del dressing intersex o del living in transit. Di qui la crisi definitiva della nozione moderna di individuo e identità, e il recupero della persona e dell’attore sociale. Tra questi la moda si inserisce con una duplice funzione: da una parte, fornisce l’opportunità di giocare con le proprie appartenenze, mettendone in discussione rigidità e stabilità; dall’altra, si qualifica come unico e solo punto fermo, per quanto temporaneo, in grado di sopperire all’incertezza e all’assoluta mancanza di riferimenti sociali determinate dalla postmodernità.

Off-White, Singapore. Photo: Cull & Nguyen.

In assenza di identità lo stile ne diviene il sostituto, sgravando dalla responsabilità della scelta, che viene superata attraverso l’adeguamento all’”ultima moda” o agli immaginari che il consumo globale propone come seducenti e desiderabili. In tempi di deregolamentazione, la moda permette di giocare con l’identità senza metterla costantemente in discussione, o di passare, come sostiene Michel Maffesoli, dalla logica delle identità a quella delle identificazioni, che possono coincidere con quelle confezionate dalla società di massa o dalle subculture, ma che riguardano sempre consumi, stili di abbigliamento, musica, divismo, sport, tv, turismo. Questo nuovo clima culturale, che segna il superamento del divenire dialettico a vantaggio di dinamiche che prevedono differenziazione e integrazione e privilegiano più punti di vista, è come lo definisce Bauman, “la modernità senza illusioni”: di universalismo, verità, univocità e razionalità. “La modernità “liberata” dall’illusione che il caos che caratterizza il mondo umano sia solo una condizione temporanea e modificabile, che verrà prima o poi rimpiazzata dal dominio ordinato e sistematico della ragione” (Bauman Zygmunt, Marchetti Maria Cristina, in Manuale di Comunicazione, Sociologia e Cultura della Moda, pag.102).

Poolside at the Versace Mansion in Miami Beach. Photo: Pedro Sostre.

La ragione contemporanea, diversamente dalla precedente, si predispone ad includere aspetti un tempo ritenuti “irrazionali” – come il frivolo, l’apparenza, il piacere dei sensi – e a riconoscere il valore della dimensione emotiva nel processo di definizione dell’identità e dell’appartenenza. Per questo motivo la moda diviene la forma contemporanea del vivere associato, forma ludica della socialità e modalità espressiva di un nuovo soggetto, che si pone come centro di un processo di significazione allargata, che si realizza attraverso sperimentazioni determinate dalla stimolazione estetica. “Nella visione di Moda – afferma Roland Barthesil motivo ludico non comporta, per così dire, alcuna vertigine: moltiplica la persona senza alcun rischio, per questa di perdersi, nella misura in cui, per la Moda, l’indumento non è più il gioco dell’essere, la domanda angosciante dell’universo tragico; è semplicemente una tastiera di segni, fra cui una persona eterna sceglie il divertimento di un giorno; è l’ultimo lusso di una personalità abbastanza ricca per moltiplicarsi, abbastanza stabile per non perdersi mai; vediamo così la Moda “giocare” col tema più grave della coscienza umana (Chi sono?); ma per il processo semantico a cui lo sottopone, essa gli infligge quella stessa futilità grazie alla quale può discolpare sempre l’ossessione del vestire, di cui vive” (Barthes Roland, in Marchetti Maria Cristina, Manuale di Comunicazione, Sociologia e Cultura della Moda, pag.115).

Hermes Concept Store, 10 Chater Rd, Hong Kong. Photo: Modern Affliction.

Questo avviene perché la moda parla la lingua della leggerezza, dell’artificio, del distacco e del divertissement, e oggi anche quella della comunicazione, che la muta e la rende ancor più nomade. Il suo alleggerire è un divertire: un uscire dal quotidiano per problematizzare diversamente la realtà, sconvolgendo e irritando quanto basta per stimolare riflessioni e mostrare orizzonti possibili. Il suo inesausto desiderio di respirare è bramosia di liberare e viaggiare, per captare, tradurre, rilanciare tutto ciò che muta e cambia sensibilità. La sua porosità però è ambivalente, non è solo diretta verso l’esterno, ma anche verso l’interno, di cui mostra il sentire, l’opacità e il disorientamento esistenziale. La moda non è solo patina, mitologia, immagine, segni ma è corpo, e in tempi di globalizzazione ne raccoglie tutte le incertezze. Disincanto e ironia sono la sua arma contro il tempo e contro il corpo e la sua verità. Sono antidoti di una cultura che per quanto sembri averlo rivalutato, ancora lo rifiuta, dimenticando di esplorarne le potenzialità. Cosa diversa infatti è pensare e progettare a partire dal corpo, dal suo rapporto con lo spazio e col tempo. Altre le forme di questa moda, che ci racconta un’altra storia: non quella della vita come opera d’arte ma dell’arte del vivere, di essere nel corpo, qui e ora, e abitarlo con difficoltà.

Fondazione Prada, Milano, Italy. Photo: Ricardo Gomez Angel.

Il corpo quotidiano, quello reale, sul quale gli immaginari comunque incidono, non è quello del desiderio e dei sogni che la moda incarna e fa vivere. Questo corpo è nuovo, perchè non mescola stili in maniera estetizzante e vuota, non mette in posa la sessualità, non blocca la potenza dell’alterità, al contrario è un corpo che esplora, transita dalle passerelle alle strade, dalle gallerie ai centri di ricerca, dalla terra natale a quelle del mondo. Anche il connubio moda-comunicazione, che porta il sistema moda ad acquisire le logiche del modello americano di organizzazione e distribuzione, sopravvalutando il potere coesivo e di seduzione della marca, sembra fortemente in crisi. E ciò invece di condurre a un rallentamento e a un’apertura verso nuovi orizzonti di ricerca, comporta un’ulteriore accelerazione che vede non solo la nascita di marchi che producono a getto continuo micro-collezioni, ma anche l’apparizione di marchi lampo che raccolgono larghi consensi in tempi brevissimi per poi scomparire nella consapevolezza della difficoltà e dell’inutilità del consolidamento. Questa condizione mette in luce le carenze di fondo, quelle stesse che hanno portato il made in Italy a vestire sé stesso, costruendo un immaginario di lusso e qualità che non ha riscontri reali né lascia spazio alla differenziazione. È il mercato ad attestarlo, con crolli delle vendite e disaffezioni sempre più frequenti, che incidono anche sulle quotazioni in borsa. Per questo motivo è importante prendere le distanze dalla pratica della moda e tornare a reimpostare il discorso in sede teorica privilegiando un approccio interdisciplinare, con l’obbiettivo di sollecitare nuovi sguardi.

Fondazione Prada, Milano, Italy. Photo: Martino Pietropoli.

Nella consapevolezza dell’imperante richiamo e del fascino dei suoi circuiti istituzionali, ora globali, in cui diventa più importante comunicarla che farla, creando l’immagine del marchio, utilizzando il potere evocativo dei luoghi, con i nuovi concept store, le collezioni, le sfilate, gli accessori, gli eventi e le campagne pubblicitarie firmate da fotografi e registi di fama internazionale. Così come le architetture, che mettono in scena una sorta di percorso iniziatico, dall’esterno all’interno, che culmina nelle atmosfere rarefatte e sospese dell’interior design, che fa parlare materiali, oggetti, colori, odori, suoni, all’insegna dei sensi e della riconoscibilità totale a partire dalle superfici. Sulle quali la moda da sempre lavora, data la sua vocazione pubblica, anche se oggi lo fa in maniera nuova: consegnando l’identità dei corpi completamente alla comunicazione, facendoli appartenere ai brand. Tendenza che si riscontra nel fenomeno perverso della “carnevalizzazione” dei mondi altri, con la trasformazione dell’ostentazione delle griffe in comportamenti tribali, come nel caso della Sape africana, nell’ossessione per l’italian style delle colf filippine a Hong Kong, come riferisce  Franco La Cecla (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.84), oppure nel bisogno di rappresentarsi attraverso le griffe di lusso dei giovani immigrati, disposti a tutto – prostituzione, “caccia ai matusa”, frode, ricettazione -, nella Tokyo fantasmatica di Trawar Asada in Pied Piper. È dunque nella convergenza di moda, modernità, modernizzazione, consumo e comunicazione, che leggiamo nuove trame e discorsi da esplorare e raccontare, per continuare a immaginare e progettare un mondo ormai capace di costruirsi anche senza di noi.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.