Dal cyberspazio alla Gold Coast, l’experimental filmmaker inglese Louis Henderson compie un viaggio controcorrente, tra la leggerezza e il peso delle nuvole.

V: Dall’Inghilterra alla Francia al Ghana. Filmmaker e fanatico viaggiatore. Raccontami del tuo percorso verso il cinema.

LH: Ho studiato prima al London College of Communications, poi a Le Fresnoy in Francia: una vera e propria istituzione nell’ambito del cinema sperimentale. Sono molto vicino a questa “deriva atipica” del cinema contemporaneo, in cui convergono i linguaggi della narrazione, della video installazione e di tutto ciò che possiamo considerare nuovo. Oggi vivo tra Parigi e il Ghana, dove ho girato alcuni short film e che considero un luogo di grande ispirazione per le mie riflessioni sul colonialismo e il post-colonialismo.

V: All that is solid propone un punto di vista molto interessante sulla smaterializzazione. 

LH: All that is solid melts into air è un passaggio del Manifesto di Marx e Engels che affronta il tema del capitalismo, riflettendo sul cambiamento introdotto nel mondo della produzione e nella società. Ho scelto di adottarlo, perchè mi sembrava una metafora appropriata per descrivere ciò che stava accadendo con l’introduzione di internet e delle nuove tecnologie. Gli smart devices di aziende come Apple, stanno spingendo verso una progressiva smaterializzazione. Col cloud questa mitologia diventa una realtà concreta, tanto da farci pensare che i dati non abbiano più bisogno della solidità. In parte è vero ma non sono convinto di questo determinismo. Quando sono stato in Ghana per girare il mio film precedente, mi sono accorto che la sostituzione rapidissima dei nostri artefatti tecnologici non andava di pari passo con la fine del loro ciclo di vita. Noi ne compriamo di nuovi ma quelli vecchi finiscono dall’altra parte del mondo e cominciano un’altra storia.

V: Hai parlato di una strana forma di riciclo e neocolonialismo inverso, mettendo in luce l’opacità del mito dell’immaterialità. Spiegami meglio questo concetto in relazione al tuo film.

LH: Da un lato il progresso tecnologico spinge in avanti il mondo occidentale, dall’altro si pone il problema di eliminare i suoi artefatti. Enormi pile di computer obsoleti vengono spedite nella costa ovest dell’Africa e finiscono nelle discariche del Ghana, considerata un tempo da noi inglesi la Gold Coast. Nel film, un giovane uomo, recupera tutta questa spazzatura tecnologica, rompe e brucia i case dei computer per estrarre il metallo che contengono per venderlo o fonderlo per realizzare nuovi prodotti da immettere sul mercato. Questo è il senso del neocolonialismo inverso di cui parlo: gli africani oggi vanno in cerca delle risorse minerarie nei materiali dell’Europa.

V: Affronti il tema della tecnologia da un punto di vista archeologico. Che relazione hai con questa disciplina?

LH: L’archeologia è una grande passione. Da bambino sognavo di fare l’archeologo una volta cresciuto. Forse perchè lo erano i miei nonni materni e probabilmente ho respirato quest’atmosfera in famiglia. Negli Anni Cinquanta mio nonno viveva in Africa, dall’Ovest al Nord l’aveva girata un bel po’, e ricordo che aveva sempre molte storie da raccontare. L’archeologia, inoltre, è una disciplina che studia il genere umano e il suo progresso tecnologico: le relazioni che questo determina. Pensare che possiamo conoscere la storia dei popoli a partire dai loro artefatti tecnologici mi affascina molto.

V: Oggi la tecnologia influenza la nostra percezione del mondo. Che cosa ne pensi?

LH: Ne sono assolutamente convinto ed è un argomento ricorrente nei miei film. La tecnologia ci permette di viaggiare e accorciare le distanze, restituendoci un’infinità di immagini del mondo. Nel mio film precedente, Visionary Letters, ho raccontato la storia di alcuni ragazzi ghanesi che non avendo i soldi per allontanarsi dal loro luogo di nascita utilizzavano questa sorta di magia voodoo per entrare in internet ed esplorare ciò che non avevano mai visto. La tecnologia è un medium, media le nostre percezioni della realtà e a pensarci bene, anche l’occhio del filmmaker osserva l’ambiente sempre attraverso devices tecnologici.

V: Ed è positivo oppure no?

LH: Da un lato sì, dall’altro come ho suggerito, la tecnologia ha anche la capacità di falsare la nostra percezione del mondo. Fino ad annullarla. Internet è sempre più controllato, non è un luogo libero. Certamente ci permette di vedere il mondo con occhi nuovi, ma vale pena chiedersi: con quali occhi lo stiamo guardando?

V: Linguaggio multilayer e narrazione non lineare. Li ritroviamo solo in questo film o sono elementi ricorrenti in tutta la tua produzione?

LH: L’aspetto multilayer è sicuramente una caratteristica di All that is solid, mentre la narrazione non lineare è una delle mie cifre stilistiche. Attribuisco un ruolo importante all’immagine e lavoro molto sulla sua combinazione. In questo film il layering visivo ha un significato preciso, rinvia alla stratificazione archeologica della storia e allo stesso tempo riflette le nostre abitudini indotte dall’utilizzo di internet e del computer. L’aspetto multitasking, cioè la facilità con cui di fronte a uno schermo passiamo da un contenuto all’altro, da una pagina all’altra, da un articolo a un programma, a un video, a un pezzo musicale, è una costante della nostra quotidianità e diventa un modo di pensare e vedere, mixare.

 

transmediale.de