Abbandonate le rotte conosciute sotto il solleone l’utopia di una nuova città. Storia di un monumento incompiuto tra le macerie e le rovine seppellite nel Belice.

La Chiesa Madre, costruita dall’architetto Ludovico Quaroni nel 1970, nel punto più alto di Gibellina Nuova. Fotografia: Carlotta Petracci.

1968. Trema la terra per far largo all’utopia. Così almeno potremmo dire, retrospettivamente, passeggiando tra le sparse rovine della bella Gibellina. Quella Nuova, di encomiabili natali, e quella abbandonata dai suoi stessi abitanti. Sicilia, Belice, riarsi dal sole e Gebel-ain, l’“occhio del monte”, la città che dominava dall’alto la valle. Tutto finito, con quel terremoto. Tutto daccapo, come sogno d’artista. Sì, perchè la controversa sorte della cittadella montana dell’entroterra siciliano sta ancora una volta nella frattura tra reale e immaginario. Tra lo scorrere della vita e il museo a cielo aperto. Ma partiamo da più indietro. 15 gennaio 1968, un terremoto scuote l’isola nel profondo, cancellando quasi completamente Gibellina e altri cinque paesi del Belice. Lasciandone semidistrutti quindici, con più di quindicimila famiglie senza casa. La fine del mondo e l’inizio di una ricostruzione infinita. Eppure non è questo il pensiero, quando ancora lontano, dall’autostrada, si vede svettare la stella.

L’omaggio che Pietro Consagra fece alla città Nuova. L’unica porta d’accesso. Una stella barocca e festosa, per ricordare, celebrare e per raccontare la storia del territorio e della Sicilia. Il rimpatrio degli “americani”, così erano chiamati gli immigrati del paese a stelle strisce. Se si ha la possibilità di guardarla dall’alto, invece, Gibellina Nuova appare come una farfalla. Dispersiva e sfuggente. Non vi è nulla di compatto. Strade che finiscono nel nulla, spazi aperti inaspettati, opere d’arte collocate in punti non chiari della città. E un perenne senso di smarrimento, dato dalla percorrenza di una pianta ellittica, a tratti interrotta. Nessuna traccia chiara delle cinque piazze che avrebbero dovuto unificare la nuova urbanizzazione, dando forma e ritmo alla comunità. Spazzata via l’identità architettonica della città vecchia, tradizionale e contadina, seppellite sotto il Cretto di Burri tutte le macerie, la città nuova appare oggi come un pensiero incompiuto. Una democrazia mai realizzata. Forse, un laboratorio dell’immaginario? Una “biennale d’arte contemporanea” o un “cimitero d’artista en plein air”? Effettivamente questo è ciò che rimane di quell’ideale che auspicava una fusione tra arte e quotidianità.

52 opere firmate da nomi altisonanti, dal già citato Pietro Consagra a Pomodoro, da Venezia a Purini, da Melotti a Mendini, da Gregotti a Samonà, solo per citarne alcuni pescando casualmente a piene mani dalle carte dell’epoca e dalle targhette sui monumenti, fino alla meravigliosa chiesa di Ludovico Quaroni, crollata poco dopo essere stata inaugurata. Sì, questo è ciò che si può ammirare a Gibellina. Non un’anima. Non una vita di paese. A malapena due supermercati, due bar e una gran quantità di architetture mai terminate. A quarant’anni di distanza per molti Gibellina è un fallimento. Un frammento abbandonato di quella tensione progettuale che percorreva l’architettura degli Anni Settanta e contro la quale posteri e pensieri postumi amano scagliarsi. Ma poi c’è anche l’altra faccia della medaglia. Quella di chi si mette in marcia, affamato di visioni. Che sotto il sole di Sicilia, là in quel deserto sociale che contraddistingue tutte le città di nuova fondazione, cerca l’utopia. La sua nostalgia museificata, il suo credo meravigliosamente decaduto.

 

Articolo pubblicato in Rent, issue 08, anno 2012.