Lo spazio è il prodotto, lo spazio produce la società. Esattamente come il viaggio nel lontano, nel mondo Altro, si ribalta in quello interiore. Dove gli altri siamo noi. Giocare non è più, o almeno non solo, un’occupazione da ragazzi. È la storia di David Cage e della Quantic Dream. La rivoluzione parte da un uomo ma anche da un pubblico. A vent’anni ci piace sparare, ci piace giocare nel senso più puro del termine, a quaranta forse sentiamo la necessità di esplorare orizzonti più vicini alla nostra quotidianità. Torna in mente The Game e Nicholas Van Orton: un gioco al massacro, di se stesso. Prove, situazioni, scenari, montagne russe emozionali. Azione, fuga, caduta. E per cosa? Per riuscire a elaborare la morte del padre. Per tornare a sentire, a vivere. Raccontare storie non è più una prerogativa della letteratura, del cinema, della serialità. I videogiochi da quel lontano 1999 con Omikron: The Nomad Soul, quando Cage fece la sua apparizione sul mercato, al più recente 2010 di Heavy Rain, quando la sua presenza venne associata alle parole: storytelling interattivo e emozionale, sono cambiati.

Hanno incontrato il cinema e la drammaturgia. L’aspetto affascinante è quello della rigiocabilità, purtroppo poco considerato dai gamer che tendono ad avere un approccio tradizionale al gioco: ovvero a considerarlo come una serie di prove da superare. Un’esperienza da terminare, una “guerra” da vincere, escludendo in questo modo il cuore del suo potenziale narrativo. L’idea invece è quella di poter rivivere la stessa storia in maniera diversa, puntando non solo sulla competizione, ma sulla combinazione. Quindi facendo continuamente esperienza di nuove situazioni emotive. Rendendo poroso il confine tra mondo ordinario e straordinario. È lo stesso Cage a raccogliere le opinioni dei gamer e a constatare come delle scelte forti imposte dal gioco, li abbiamo indotti a metterlo in pausa, per dipanare prima, a partire dalla propria coscienza, le sue implicazioni morali. Un pubblico di giocatori adulti ha bisogno di confrontarsi con la politica, con i sentimenti, con le relazioni familiari all’interno di un contesto narrativo dove siano presenti anche i generi: dal thriller all’action, dall’horror al soprannaturale.

Ci troviamo di fronte a una trasformazione: il programmatore diventa uno sceneggiatore, anzi un autore, perché non crea solo un mondo Altro, bensì un mondo narrativo che gli appartiene, che prima di tutto riflette i passaggi, le questioni irrisolte della propria vita, che diventano lo specchio per quelle degli altri. Giocare è una cosa seria, come sosteneva Johan Huizinga in Homo ludens. Beyond: Two Souls è un esempio eloquente. Tocca sentimenti molto profondi: dall’abbandono, alla disperazione, al tradimento. “Per me è stato un esercizio liberatorio, grazie al quale ho capito che i giochi possono evocare temi seri come il suicidio, la marginalizzazione e la difficoltà di accettare chi sia qualcuno”, afferma lo stesso Cage. Si tratta a tutti gli effetti di un’esperienza esistenziale. La protagonista è Jodie Holmes, una ragazza nata con un dono, che è anche una maledizione, una presenza oscura, a volte protettiva e gentile, altre possessiva e ostile, chiamata Aiden. L’arco narrativo dura quindici anni. Andando avanti e indietro nel tempo scopriamo il suo tormento, anzi lo viviamo in prima persona. Analogamente possiamo identificarci con altri personaggi e venire a conoscenza delle loro ferite. Passando dal dramma adolescenziale al militarismo, fino al paranormale, veniamo guidati da una curiosità, da una domanda, da una possibile scoperta: che cosa c’è dopo la morte?

 

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