In tempi di deregolamentazione in cui la catena di montaggio si disperde su scala planetaria e la circolazione del capitale segue proprie traiettorie, la presunta libertà d’intervento delle élite del potere determina circuiti perversi e sistematiche strategie di controllo e sfruttamento, in merito alle quali risulta difficile stabilire con precisione quando i territori vengano rivalutati dalla connessione e quando disseccati. Nella prospettiva glocale però locale e globale non possono più essere interpretati come momenti costituenti un’opposizione, ma come un unico movimento che realizza una “fusione di orizzonti” in costruzione, a partire dalla quale si produce un costante rimescolamento di simboli, significati e significanti sia a livello generale che parziale. Il mondo reticolare costruito dalla net economy non può prescindere dalla fisicità dei luoghi, dalla loro dislocazione geografica e da quella sedimentazione di saperi e conoscenze culturali che li rendono oggettivamente diversi gli uni dagli altri. Il mondo che si struttura a livello globale ha uno strenuo bisogno del locale, della diversità, della distanza per continuare a riprodursi incessantemente.

Dubai, United Arab Emirates. Photo: Alex Block.

I milieu territoriali, patrimonio di conoscenze particolari legate a un saper fare che si è costruito nel tempo in relazione all’ambiente, assumono una rilevanza strategica, all’interno di un contesto economico flessibile e destrutturato che tende a privilegiare sempre più logiche just in time e valori simbolici. In cui la condizione più temibile è quella dell’esclusione. Il cui timore spinge, molto spesso, le comunità territoriali locali, accecate dal desiderio di entrare a pieno titolo in un’arena economica condivisa, a dedicarsi anima e corpo al fare, ricalcando una forma di “toyotismo familistico e paesano” (Bonora Paola, Comcities, pagg.9-10) che, invece di funzionare come collante sociale, non di rado innesca meccanismi disgregativi e lotte intestine. Tutto ciò induce a riconsiderare quello che avviene a livello macroscopico, dove, nonostante messaggi, linguaggi e modelli si incrocino, il mondo sembra strutturarsi ancora sulla base di una logica duale, che vede: da un lato, il protagonismo e l’importanza assegnata all’omologazione e alla standardizzazione dei consumi, e dall’altro, la formazione di un paesaggio composito in cui si gioca il difficile rapporto tra piccola imprenditoria, localismo, segregazionismo e timore dello straniero e del diverso. Ossia: nuove e più profonde gerarchie e differenziazioni, che si articolano e riproducono in uno spazio multiplo e frattale, in cui mondi paralleli sono raccordati tra loro da reti dedicate.

Dubai, United Arab Emirates. Photo: Alex Block.

“Non più dunque il sogno di una grande rete polisemica, il cyberspazio senza confini e barriere, il libero incontro di intelligenze a-corporee, ma reti e retuncole specializzate, tese a organizzare e gestire i diversi segmenti di un ciclo produttivo fondato sulla conoscenza” (Bonora Paola, Comcities, pag.11). Le connessioni ultrarapide, consentite dalle nuove tecnologie, possono avere infatti il duplice effetto di avvicinare aree fisicamente distanti e allontanare tra loro località realmente vicine, realizzando una geografia a punti e salti in cui a zone ad alta concentrazione relazionale si affiancano interzone di buio trasmissivo, solitudine mediatica e incomunicabilità. Per cui, se a partire da una visone ottimistica si può dire che i linguaggi delle reti, praticando continue strategie connettive, agiscono come motori di diffusione ed espansione di esperienze, conoscenze e incubatori di nuova creatività, innescando processi di ibridazione tra i diversi territori identitari, sociali e culturali; in un’ottica un po’ più realistica sembra opportuno riferire dell’imperativo diffuso dal capitalismo comunicazionale, che spinge tutto il mondo all’emulazione del modello occidentale, in una rincorsa verso paradisi consumistici artificiali, che le ammiccanti immagini del marketing continuano a rinnovare. La globalizzazione ci obbliga a pensare in maniera “differenziale”; ad operare continui spostamenti dello sguardo, dal globale al locale, esplorando il confine che li separa e che li vede compresenti.

Burj Khalifa, Dubai, United Arab Emirates. Photo: Roman Logov.

Se sotto il profilo economico, il mantenimento della distanza determina una forma di ipercolonialismo che punta sui luoghi alla ricerca di requisiti sociali, saperi, usi e costumi da poter sfruttare in termini commerciali, sotto quello culturale questa dipendenza non può più essere letta in maniera univoca o biunivoca. Anzi è quantomai necessario saper distinguere tra reti di significati e valori che coinvolgono i diversi attori sociali a livello globale e locale, e che riferiscono: da un lato, di partecipazioni collaborative, arricchimento semantico e isotopia, dall’altro, di flussi gerarchici, polarizzati, unilaterali e squilibrati. La transizione dal fordismo al postfordismo, ossia: da un economia di mercato, in cui libertà e autonomia sono sinonimo di possesso, ad un’economia reticolare, in cui appartenenza e condivisone della proprietà sono prerogative dell’accesso, non si realizza equamente su scala planetaria. Il diritto a non essere esclusi da una vita piena e soddisfacente e a partecipare ad un sistema di relazioni di potere che si declina al plurale, sembra privilegiare quelle aree occidentali che risultano fortemente connesse alle reti mondiali.

Burj Khalifa, Dubai, United Arab Emirates. Photo: Roman Logov.

Non si sta parlando solo degli Stati Uniti, ma anche del principale corridoio industriale europeo, dalla Gran Bretagna alla Scandinavia, in cui si riconosce che il fattore principale di diversificazione e divaricazione economica è riscontrabile nel dinamismo tecnologico, a cui fanno da corollario lo sviluppo di risorse cognitive e culturali e di capacità organizzative e logistiche specifiche. Ciò significa che per gli altri quattro quinti del genere umano, che ancora vivono in condizione di abbietta povertà e di pura sussistenza, ha senso parlare di un divario da colmare che può portare alla costituzione di regimi di proprietà privata simili a quelli che si sono instaurati in America e in Europa negli ultimi duecento anni (Rifkin Jeremy, Il Sogno Europeo, pag.198), e nel contempo, alla manifestazione del desiderio di aprire il proprio territorio alla delocalizzazione produttiva delle imprese multinazionali e all’attraversamento dei flussi globali dell’economia, nelle forme del loisir e del turismo. Di qui la pervasività dei processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione, che interessano non solo i paesi in via di sviluppo, o del Terzo e Quarto mondo, ma più in generale tutti i locali connessi dalle reti globali.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.