Pigalle Basketball, Paris, France. Photo: Nicolas Steave.

Nel mondo post-elettronico della globalizzazione, dove l’immaginazione è diventata un fatto quotidiano e collettivo, che muove verso espressione, autoproduzione e creatività, desideri e paesaggi interiori si insinuano nella metropoli disegnando percorsi che riformulano la relazione tra sradicamento e località. Milioni di corpi di persone in movimento, per le più svariate ragioni, si affiancano allo scenario architettonico e introducono nuove qualità e dispositivi spontanei di elaborazione del senso in connessione con l’ambiente. Ciò che comincia a fare la differenza tra una città e un’altra, una strada e un’altra, un territorio e un altro, non sono più solo l’architettura e i suoi simboli formali, ma le presenze umane: invadenti e varianti. Uniche cellule portatrici di vera diversità e informazioni culturali profonde. Terminali di memorie viventi (Branzi Andrea, Interni, n.551, 2005). Gesti. Abbigliamento. Fisionomia. Che interrompono prospettive di panorami stabili e creano flussi irripetibili di scene antropologiche e semiotiche. Immettono schegge, lampi di luce e di colore, profusioni di fragranze lontane nello spazio-tempo di un istante. Lo spazio cittadino si rivela oggi come un tutto pieno fatto di oggetti, prodotti, messaggi, persone, che ricordano che il vero risultato della rivoluzione elettronica non è costituito solo dalle presenza delle tecnologie informatiche dentro all’ambiente, ma soprattutto dalla presenza dell’umano, con la sua incontenibile anarchia formale, che impone una revisione di tutte le strategie tradizionali di organizzazione e progettazione.

Pigalle Basketball, Paris, France. Photo: Nicolas Steave.

Le fabbriche si svuotano e milioni di addetti dal colore e pelli differenti si liberano nella città e la costruiscono come superficie cangiante, rumorosa, in grado di annullare e confondere la percezione di grandi e limpidi scenari. La scena urbana di inizio secolo si confronta con questa inattesa invasione da parte dell’umano, e di tutto ciò che lo connota: rilevanza assoluta dei colori, dei tessuti, dei capi di abbigliamento, che non possono più essere visti come semplici accessori dell’identità individuale, bensì come merci che intervengono da protagoniste, dando luogo a un organismo pulviscolare, intermittente e in continuo cambiamento. Nella sua semiosfera interagiscono molte componenti diverse e di non facile armonizzazione, che dipendono da realtà materiali e immateriali. La metropoli umana è una realtà scivolosa. Viscida. Che non si lascia progettare in maniera unitaria, ma che occorre arrestare, frammentare, isolare per poterla comprendere, per poterla anche solo parzialmente decifrare. Il suo corpo fluido è composito, non solo alla vista, ma a tutti i sensi e criptico per il pensiero. Un’accurata descrizione di tutto ciò la dà Franco La Cecla prendendo in esame il quartiere di Barbès a Parigi: in cui tra trance metropolitana, sfilate multietniche e mercatini della diaspora, si disegnano gli orizzonti di una complessità sfuggente.

Pigalle Basketball, Paris, France. Photo: Nicolas Steave.

Nel boulevard Barbès si incontrano una gran varietà di presenze: arabi, berberi, africani, parigini, turisti, tutti coinvolti nella medesima atmosfera indaffarata, caotica, disorientante, incongrua. Tra merci che “urlano”, venditori che chiamano, passanti che arrestano e riprendono la corsa o sostano ai magazzini Tati, africane con bambini appesi alle spalle, magrebine con henné ai piedi e alle mani, vecchie berbere con tatuaggi blu sulla fronte e sul mento, paccottiglie di latta colorata, gadget, fragranze, profumi e firme false, l’impressione che questa arteria dà, è quella di un grande luna park improvvisato: dove la povertà diviene fantasmagoria e il vociare ininterrotto ricorda scene cinematografiche di una Parigi d’altri tempi. Smistamento di territori, linguaggi, delocalizzazione, deterritorializzazione. Gli ordini si disfano. I simboli della religione, della socialità, della territorialità viaggiano con le persone e acquisiscono altri sensi, storie, memorie. Si trasformano in nuovi oggetti di culto per popolazioni emigrate e in esilio, oggetti da vetrina o da bancarella acquistabili da chiunque: immagini e simboli della riterritorializzazione e delle sua leggerezza. Il tappeto con bussola di cui parla La Cecla è un esempio eloquente. Volatilizzazione e laicizzazione del mondo: Islam sradicato per le strade delle metropoli.

Pigalle Basketball, Paris, France. Photo: Nicolas Steave.

“Il tappeto – ricorda l’antropologo – è oggetto della tradizione e della modernità al tempo stesso, anzi è per eccellenza un oggetto “postcoloniale” di un mondo in cui le pratiche religiose si sono deterritorializzate. È uno degli oggetti della diaspora islamica, di un islam che è stato recentemente definito “moschee senza minareti”, per esprimere la diffusione, per motivi legati all’emigrazione e allo sconquasso di fine millennio, di un mondo mussulmano fuori dai confini tradizionali dell’Islam. […] Il tappeto con la bussola serve a ricordare che esiste una dimensione universale dell’Islam, un’appartenenza che viene ricondotta all’orientarsi verso una comune direzione, ma ricorda anche che la condizione di chi si serve del tappeto “viaggiante” è condizione di esilio, di diaspora in un mondo di infedeli” (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.45-46). Il tappeto è l’emblema dell’Islam: una cultura delocalizzata, una cultura dell’orientamento, che presuppone la centralità geografica non dell’Occidente, ma di un Oriente a cui occorre riferirsi col presupposto di recarvisi almeno una volta nella vita; negazione del qui rispetto al laggiù: la Mecca, il suo miraggio, il suo potere immaginifico. La sua presenza in Occidente è però ambigua: da un lato rappresenta un pericolo di deterritorializzazione dell’Islam stesso, e dall’altro un occasione per diffondere l’immagine e i valori del mondo mussulmano.

Pigalle Basketball, Paris, France. Photo: Nicolas Steave.

Immagini e valori che si modificano a contatto con altre culture, si laicizzano e rinviano ad una visibilità che non si rifà più solo alle dinamiche del potere religioso ma anche a quelle del consumo. La religione nei mercatini di Barbès si fa vetrina e il mussulmano diviene un tipo umano con cui confrontarsi non solo culturalmente, socialmente o politicamente ma anche formalmente e visivamente. Si tratta di un incontro-scontro che apre la strada a varie forme di sincretismi, alla riflessione sul passaggio da microcosmi ad alta intensità culturale a macrocosmi dispersi. Paesaggi estranei in cui si proiettano le culture in diaspora, col loro carico di turbamenti e sogni che occupano quotidianamente pagine web, schermi televisivi, frequenze di radio pirata, di quartiere, muri di palazzi, sottopassaggi deserti, parchi con adunate pubbliche, abiti: la città tutta, materiale e immateriale. È lo spaesamento che fa tutt’uno col reinsediamento: formalmente espressione di un nuovo “localismo sradicato” che smista, accoglie, raccoglie, interpreta e reinterpreta cose e immagini. Ne altera la biografia e geografia emozionale. Le grandi città del mondo, meta di ingenti flussi migratori, diventano in questo modo paesaggi misti, in cui culture tradizionali, indigene e lontane si ridanno un volto: the global production of locality (Appadurai Arjun, Modernità in Polvere).

Pigalle Basketball, Paris, France. Photo: Nicolas Steave.

Localismi che non somigliano affatto a quelli originari, ma che sono una conseguenza diretta della globalizzazione, che uniformando il paesaggio economico mondiale, configura al suo passaggio zone di emarginazione o movimenti di diaspora il cui carattere principale sta nell’utilizzo dello spazio e del corpo come risorse primarie, attraverso le quali aderire, resistere e criticare la globalizzazione stessa. Dalla condizione liminale della diaspora prendono forma immaginary landscapes, che stanno sospesi tra nostalgia, rifiuto dell’origine e sua progressiva trasformazione in nuovi stereotipi, in cui si rendono visibili storie, memorie: presenti, passate, vissute, immaginate. L’appartenenza religiosa, etnica o di clan diventa paesaggio urbano cambiando i suoi connotati. Ibridandosi coi linguaggi della pubblicità, del consumo, dei mezzi di comunicazione di massa, si attiva in una molteplicità di discorsi. Di cui fanno parte anche i movimenti di quartiere e le reti di solidarietà, che non seguono più semplicemente i confini della provenienza etnica, ma quelli di nuove territorialità, mediate da bisogni, interessi e sentimenti. E che sono lì a testimoniare come nelle città della globalizzazione si riformino un senso della località e dell’appartenenza che hanno a che fare con delocalizzazione e rimescolamento delle comunità immigrate. Le quali tramutano condivisione di conoscenze ed esperienze in nuove possibilità: di rappresentazione, di utilizzo della città.

Pigalle Basketball, Paris, France. Photo: MEAX.

Privilegiate sono le zone abbandonate, intorno alle stazioni, ai docks e ai mercati, che divengono risorsa primaria, territori in cui la parola parlata torna a vivere nel faccia a faccia del commercio e della festa. Inedito localismo dal sapore di villaggio etnico. Postfolcloristico come messa in scena del gioco delle identità attivato dalle derive etniche. Arjun Appadurai parla di multiscapes, di formazione in una stessa città di paesaggi diversi e sovrapposti oltre che contigui; arredati da oggetti di cui solo apparentemente si può classificare la provenienza culturale, poiché intenso è il passamano e profondi i processi di alterazione del loro aspetto e delle funzioni d’uso. Oggetti che formano paesaggi assurdi e singolari che rendono visibili mondi lontani in una dinamica di deterritorializzazione che sottrae completamente significato alle cose “etniche” (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.51), gli abiti tradizionali e lo stesso cibo d’origine e li risignifica in maniera sorprendente e inaspettata. Kitsch modernità. Le cose infatti hanno una certa aria, che eccita l’immaginazione e muove verso l’elaborazione di percorsi interiori inattesi, che non sono solo quelli della moda globale, ma delle diaspore, che raccolgono e ribaltano il significato del consumo.

Pigalle Basketball, Paris, France. Photo: Nicolas Steave.

Merci che fuoriuscite dai tradizionali circuiti d’acquisto si ritrovano all’interno di altre visioni e diventano marcatori semiotici di identità in costruzione: rientrano nelle doti delle donne migranti come simbolo della loro indipendenza ed elevazione di status; approdano ad altre categorie linguistiche come l’ystyle (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.52) (con questo termine si identificano, nella lingua sulu del Sud musulmano delle Filippine, quegli oggetti “di stile” che, tramite il consumo individuale e l’approdo alla moda internazionale, consentono alle donne migranti l’accesso al mondo globale e la possibilità di competere in fascino con le cinesi e le europee). Stile delle identità conviventi, multiple, frammentate: espressione del multilinguismo della diaspora, della sua apertura a più mondi e contesti, della sua coupure (termine utilizzato da Roger Bastide nel suo lavoro sulle americhe nere, che identifica la capacità dei migranti di mantenere in sé una molteplicità di livelli e di appartenenze; di formare nuove appartenenze pur portandosi dietro il paesaggio del proprio luogo di partenza. In La Cecla Franco, Jet-lag, pag.53).

Pigalle Basketball, Paris, France. Photo: Ilnur Kalimullin.

Il distacco dal mondo di partenza e l’approdo ad altre realtà comporta infatti una lacerazione, un doloroso processo di disidentificazione e reidentificazione, connesso al cambiamento di ambiente e di abitudini, che può incanalarsi in diverse strade senza necessariamente arrivare a compimento. L’abbassamento della soglia del Noi e la sua esposizione all’esterno motivano dispersione e sfaldamento e ricomposizione in un plurale che è quello degli ii, nel quale il soggetto è protagonista e responsabile delle proprie scelte e della propria identità mutante, ibrida e policentrica. La condizione di spaesamento della diaspora decostruisce ogni dato, assunto, corpo e realtà e lo ricostruisce attraverso la consapevolezza che non esiste più una frattura tra tempo interiore e tempo esteriore, e che tutti i tempi possono essere usati e montati per costruire l’identità in transito.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.