È uno dei producer più enigmatici della scena elettronica internazionale, non solo per l’eclettismo dei suoi album e per la commistione di influenze che rileggono in maniera personale una derivazione dichiaratamente techno, ma anche perchè la sua musica è capace di evocare stati emotivi e visivi che ci permettono di riflettere più a fondo sul concetto di composizione, trasformandola in un’esperienza ambientale e immersiva, come nell’ultimo progetto sviluppato in collaborazione con la London Contemporary Orchestra. 

V: Recentemente sei stato il protagonista di un nuovo progetto sperimentale commissionato da Boiler Room e dalla London Contemporary Orchestra, in collaborazione con Ninja Tune, la cui première è stata alcuni giorni fa al Barbican Centre di Londra. Com’è stato lavorare con un’orchestra?

A: È stata sicuramente un’esperienza diversa dalle altre e molto stimolante, anche se in passato, quand’ero molto giovane, la musica classica ha fatto parte della mia vita. Collaborare con la London Contemporary Orchestra in un certo senso ha significato realizzare qualcosa che stavo ricercando, che pur essendo nuovo nella forma, faceva parte del mio background artistico.

V: Che tipo composizione è nata dalla combinazione degli strumenti e della tecnologia?

A: Ho suggerito di reinterpretare alcuni pezzi dei miei album precedenti in una direzione orchestrale, ma non in senso tradizionale. R.I.P. è stato il primo album su cui abbiamo lavorato, quello che incarna uno spirito e una mentalità più classica. Sono partito da alcuni suoi pezzi a cui ho aggiunto altro materiale di Splazsh. Di mano in mano che prendevo confidenza con l’orchestra ho sentito l’esigenza di creare dei pezzi nuovi, specifici per i vari strumenti che stavamo utilizzando, integrando l’aspetto acustico con i sintetizzatori.

V: Come sono cambiati i tuoi pezzi in questa reinterpretazione?

A: In realtà non è cambiato molto, nel senso che io lavoro in una direzione classica. La necessità però di dover comunicare la musica ad altre persone, ha motivato un’organizzazione diversa a partire soprattutto dalla scrittura. Quando lavoro in studio interagisco con la tecnologia in maniera molto istintiva, perdendo anche informazioni. In questa esperienza invece, dove l’aspetto collaborativo era centrale, ho dovuto trovare un modo per sistematizzare e condividere quell’impeto che in studio rappresenta un’esperienza esclusivamente personale.

V: Che tipo di perfomance hai creato? Come hai interagito con il pubblico?

A: Volevo che tutto cominciasse prima dell’ingresso al Barbican Centre, che è un meraviglioso esempio di architettura brutalista e che insieme al quartiere dove si trova, restituisce un immaginario piuttosto distopico. Mi piaceva l’idea di partire dal luogo e da quello che era in grado di suggerire. Nella performance questo aspetto distopico e alieno è diventato fondamentale. Volevo ricreare un’esperienza dell’altro mondo, con echi provenienti dal fantasy e dalla science fiction. Su questa impronta fantascientifica abbiamo lavorato molto, successivamente, a partire dal contributo visivo. Ho collaborato nuovamente con Nic Hamilton, chiedendogli di filmare il quartiere per frammenti e di manipolarli trasfigurandoli in un altro immaginario, escludendo totalmente il realismo. Il pubblico doveva vivere un’esperienza cinematica, sentirsi dentro a un gigantesco cinemascape.

V: Nella tua musica trovo che l’aspetto spirituale sia preponderante. È così?

A: La religione ha avuto un forte impatto su di me. All’interno del suo universo immaginifico ho sempre trovato molto interessante questo transito dal mondo della luce a quello dell’ombra. Ricordo che ne ero affascinato sin da bambino e ho mantenuto questa ambivalenza e questo movimento nella mia musica. Da un lato provengo da un’esperienza musicale techno-industriale molto scura, dall’altro nel mio passato c’è anche la musica classica, della quale comunque ho sempre apprezzato il lato più buio. Come i requiem per esempio. Quindi tutta la tensione che pervade la mia musica e quello che voglio comunicare si gioca su questo rapporto oscurità-illuminazione.

V: C’è qualcosa di cui senti la mancanza nella musica?

A: Credo che la musica sia una delle forme d’arte più potenti in assoluto. Certamente io mi sono avvicinato prima all’arte visiva. Quindi in me c’è questa dialettica tra la frustrazione di non potere vedere e materializzare la musica e la meraviglia che provo di fronte a questa sorta di quadro invisibile che si viene a creare componendo.

V: E per quanto riguarda l’andamento narrativo?

A: Non credo che la musica abbia sempre una narrativa, cioè che debba per forza raccontare qualcosa o avere uno sviluppo di questo tipo. Se penso ai miei album: Splazsh è stato quello più concettuale mentre in R.I.P. ho ricercato una direzione legata allo storytelling, passando da tracce più meditative al delineare veri e propri paesaggi in cui perdersi. D’altra parte trae la sua ispirazione dal poema epico Paradise Lost di John Milton e mantiene, o comunque cerca di distribuire su una timeline, la sua narrativa. Anche il titolo dell’album doveva evocare questa tensione, da un lato religiosa, dall’altro legata al racconto.

https://www.youtube.com/watch?v=8F-v9RZt1Z8&list=PL9E6A105FB22F8202&index=1

V: Spiritualità e fisicità. In che rapporto le vedi rispetto alla tua produzione?

A: I due aspetti sono intimamente connessi, credo che nella musica tutto ciò che è fisico possa avere una ricaduta spirituale. Si può intervenire molto sugli stati emotivi individuali e collettivi. Anche in un club si può passare da una condizione di euforia a una di paura, semplicemente attraverso i suoni. Io naturalmente dalla musica voglio essere stimolato e esprimere il mio punto di vista, trovando la mia cifra distintiva.

V: Riprendendo il ragionamento sul visivo e sull’ispirazione. Da dove viene per te?

A: Mi ispiro al mondo in cui vivo, reale e immaginario. Mi piace passeggiare in mezzo alla natura, soprattutto quando piove. E in Inghilterra questa condizione atmosferica non manca mai, come non manca l’alternanza tra il verde incontaminato e il degrado industriale. Da un punto di vista culturale, ho un approccio esplorativo, attingo a molte arti e discipline. Ho moltissimi libri: sulla filosofia cinese, sulla filosofia della musica d’avanguardia, sulla scienza, sulla fisica, la moda, l’arte. Ho anche molti libri di istruzioni, di sintetizzatori di diverse tipologie e provenienti da svariati paesi. Quindi faccio molta ricerca sia sul medium che utilizzo per lavorare sia su ciò che mi stimola da un punto di vista visivo e creativo. Mi piacciono i compositori, non solo nella musica, ho letto molti libri di Wassily Kandinsky sulla composizione visiva, di Henry Moore per quanto riguarda la scultura, di Alexander McQueen, sulla moda. Mi interessano tutte le forme d’arte, frequento mostre e gallerie. Cerco l’ispirazione in altri artisti, senza preclusioni.

V: Che cosa ricerchi nella musica?

A: Sono interessato alla bellezza. Mi piace la bella musica e per me la bella musica è spesso scura e oscura. Ricerco la bellezza delle emozioni nella musica, ma la bellezza si può incontrare dovunque anche laddove nessuno la vede. Viviamo in un mondo in costante e progressiva decadenza, caratterizzato anche dalla dimensione del riciclo. Spesso prendo ispirazione da ciò che è sporco e lo faccio in maniera onesta, perchè per me la musica rappresenta un’evoluzione personale, non solo artistica. [sotto: Actress, X22RME, AZD, Ninja Tunes. Brano successivo alla pubblicazione dell’articolo].

https://www.youtube.com/watch?v=Mg1Pw0y-x8Q

V: Come consideri il lavoro su un album?

A: Ogni album è un pezzo di vita, che inizia e finisce. Non si tratta solo di un’esperienza artistica. C’è molto di personale. Dopo R.I.P. per esempio il mio modo di fare musica è completamente cambiato, è stato un punto di non ritorno. Splazsh era più concettuale, R.I.P. andava nella direzione dello storytelling, ma mi ha permesso di guardare in maniera nuova alla techno. Ogni progetto che faccio mi permette di evolvere come artista e come persona. Ogni volta che chiudo un album ricomincio daccapo. Rivoluziono lo studio, trovo nuovi modi di lavorare. Mi sento come se dovessi passare ad un livello successivo, per continuare a esplorare le potenzialità creative dei sensi e della musica. Non ho mai fatto la stessa cosa due volte. La musica per me è un’evoluzione e un modo per stimolare me stesso ma non solo in senso artistico. C’è la vita dentro.

V: Quando ti guardi indietro, come interpreti le tue produzioni?

A: Non mi guardo indietro in senso nostalgico, anche perchè significherebbe compiere un salto di quasi dieci anni e io cerco sempre di andare avanti. Certamente riascolto diversi brani, ma è più una questione professionale. Quando sei completamente immerso nel processo creativo, molte scelte che fai non sono consapevoli. Quindi riascoltare ciò che hai fatto è un po’ come osservarsi dall’esterno, per orientare la produzione dell’album successivo, per sviluppare meglio delle idee che sono ancora allo stato embrionale, magari spingendole in un’altra direzione. Come dicevo prima, collaborando con un’orchestra, ho dovuto essere molto più organizzato e questo aspetto avrà delle ricadute sul mio modo di scrivere la musica da adesso in avanti e sul riascoltare i miei album. È un percorso di acquisizione di capacità e consapevolezza, anche di ricordo delle esperienze che hai fatto, che non annulla però l’istintività e la curiosità che contraddistingue le nuove produzioni.

 

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26 febbraio 2016
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