Hyper Opal Mantis, il sesto album di Kanding Ray, uscito lo scorso 24 febbraio su Stroboscopic Artefacts, è un trittico sui tre stadi del desiderio e sulla tensione tra naturale e artificiale, che attraversa da sempre l’elettronica. 

V: Ripercorrendo i tuoi album, ho notato un approccio concettuale alla musica, che si traduce spesso nel richiamo ad una suggestione filosofica o politica. Quale visione porta con sé Hyper Opal Mantis?

KR: La techno è guidata da una dialettica tra naturale e artificiale. All’interno dell’album ho cercato di esplicitarla, parlando della relazione tra il corpo e la mente. Volevo riflettere sul dualismo tra la dimensione emozionale e viscerale dell’esistenza e l’immaginario ipermoderno e futuristico che la tecnologia richiama.

V: Quando parli di tecnologia, fai riferimento all’universo digitale nel quale siamo immersi o più in generale all’idea di “macchina”?

KR: La musica elettronica è imprescindibile dalle “macchine” con cui viene prodotta e questa relazione determina un approccio futuristico che è parte integrante del movimento che l’ha generata e fatta evolvere.

photo Riccardo Malberti
Photo Riccardo Malberti.

V: Un punto di vista che viene solo dalla musica o che trae ispirazione anche da altre forme espressive: artistiche, filosofiche o letterarie?

KR: Generalmente trovo ispirazione nella realtà che mi circonda. Può trattarsi di politica, come di arte visiva o architettura. Sono però più interessato ai cambiamenti sociali, a ciò che accade nel mondo, che ad altre forme espressive.

V: Trovi che la relazione tra naturale e artificiale sia entusiasmante o preoccupante?

KR: Non esprimerei un giudizio così ambivalente. Preferisco il punto di vista dell’osservatore. Credo che sia importante abbracciare il contrasto e trovare in questa tensione la bellezza. Non sono interessato al ritorno ad una pura naturalità, allo stesso tempo non ritengo che il futuro debba per forza essere guidato dal principio dell’artificialità. Continueremo ad essere animali ed esseri umani guidati dal desiderio. Ed è proprio questo il concetto che sta al centro dell’album: tre stadi del desiderio.

V: Tre stadi del desiderio che sono i tre capitoli dell’album?

KR: Esattamente. Hyper è l’istinto primario, quello riconducibile alla sensualità della lussuria; Opal è il bisogno di una catarsi emotiva, quella che determina una domanda di amore; mentre Mantis è la forza distruttiva e fatale, perchè l’amore e la sensualità possono anche condurre alla distruzione.

V: Che importanza dai alle emozioni nella musica? Intendo dire, da un punto di vista creativo e compositivo ma anche di ascolto. Hai un approccio guidato dai sensi e da come percepisci il mondo?

KR: Solitamente non mi pongo questa domanda, seguo la passione, che è ciò che mi fa alzare ogni mattina, andare in studio e produrre. Cerco di ottenere una risposta emotiva, prima di tutto da me stesso e di determinarla anche in chi mi ascolta. Mi piace l’idea di svelare ciò che è nascosto.

V: Ho letto che hai un trascorso di studi in architettura. Hanno influenzato il tuo modo di intendere la relazione tra musica e spazio?

KR: Penso che il suono sia un medium importante per lo spazio. Rimbalzando e venendo riflesso dalle superfici determina la nostra percezione della realtà, ci rende consapevoli della materialità dei luoghi in cui viviamo. Personalmente però non ho mai lavorato sull’intersezione tra musica e spazialità, da un punto di vista di ricerca. Per me lo spazio è riconducibile più al contesto in cui suono.

V: Sempre rifacendoci al tuo background da progettista. Pensi che l’identità nella musica sia importante? La ricolleghi più al concetto di sottrazione o addizione? Nel cultura occidentale a mio avviso c’è una forte spinta alla sottrazione, non credi?

KR: Non sono propriamente d’accordo. Penso che la sottrazione sia un principio di derivazione più orientale. Per fare un esempio, all’interno della cultura occidentale, in quella cattolica, l’addizione, la profusione dell’ornamento sono stati elementi fortemente identitari. La riduzione è un’eredità del modernismo. Ritengo che, culturalmente, in noi ci sia una spinta più ad aggiungere che a togliere.

V: Certamente. Ma l’identità e la ricerca di un tuo suono, che impatto hanno sulla tua produzione?

KR: Sono fondamentali. Lavoro sulla musica dance, techno proprio perchè è molto codificata e cerco di muovermi al suo interno, ponendomi dei vincoli, ricercando la specificità. Penso che sia l’unica strada per distinguersi e risultare rilevanti.

V: La tecnologia oggi ci rende più nomadi, incentiva fortemente lo sconfinamento.

KR: Oltrepassare i confini è il ruolo di ogni artista che vuole essere considerato significativo. Non vedo però perchè la tecnologia dovrebbe incentivare questo processo. Ibridare la cultura, andare al di là dell’usuale è uno status mentale che può essere assecondato e concretizzato con diversi strumenti. È sempre stato così. Oggi magari è diventato semplicemente più accessibile.

V: Il tuo incontro con la musica elettronica è posteriore rispetto a quello con altri “generi”, come il rock e il jazz. Che ricadute ha avuto sul tuo modo di interpretare la techno?

KR: Per me la musica è sempre stata un campo aperto. Quando mi ci sono avvicinato, i miei ascolti si muovevano di più nei territori del noise e del rock. Col trasferimento a Berlino ho scoperto l’elettronica e la club music, ne ho subito l’influenza e ho cominciato a produrre seguendo quella direzione. Non sono però un feticista delle tecnologie, non avendo un background da dj o legato al movimento rave, non subisco una precisa fascinazione, diciamo che le ho sempre utilizzate come degli strumenti.

V: Oggi si parla molto di post-club music. Destrutturare la musica da club è diventato quasi un imperativo. Che cosa pensi del ruolo dei club in relazione al tuo lavoro?

KR: Destrutturare la musica da club non è una tensione che riguarda esclusivamente la contemporaneità. Basti pensare ad artisti come Aphex Twin o gli Autechre, che lo facevano già tra gli Anni Novanta e i primi Duemila, prendendo degli elementi provenienti dalla techno e dalla rave culture per produrre musica non da club. Penso che oggi sia in atto una saturazione di quest’attitudine. La musica da club viene costantemente decostruita e ricostruita, è un movimento naturale.

V: In questo movimento dove ti collochi?

KR: Ora direi, nella fase di costruzione. Come ho già detto non provengo da un background legato alla club music. Dieci anni fa ho prodotto dischi ambient, su label molto sperimentali, come la Raster-Noton. Sono sempre stato connesso al mondo dell’arte e la decostruzione è un percorso che ho affrontato in passato.

V: Tra emozione e immaginazione. Hai un approccio visivo alla musica? Lone Pyramids lo suggerisce.

KR: Lone Pyramids è una traccia che fa parte del primo capitolo dell’album quello che affronta il tema dell’istinto primordiale e nasce da una suggestione visiva. Dall’aver immaginato questo ‘nugolo’ di piramidi trasposte in un universo virtuale. Ho pensato che questa associazione tra perfezione matematica, cultura antica, visione mistica e ipermodernità rappresentasse bene il contrasto di cui volevo parlare. Quindi sì, ho un approccio visivo e sinestetico alla musica. La vedo in termini di forme, colori, materiali e mi aiuta  a concettualizzarla.

 

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