Tra illuminazione, ritmo e melodramma, Aïsha Devi ci racconta come la liberazione oggi passi attraverso la tecnologia, recuperando le radici tribali della musica, quel sentire al collettivo che rappresenta un’espansione della coscienza nel tempo e nello spazio.

V: Nota nel panorama musicale come Kate Wax, diversi anni fa hai scelto di adottare il tuo vero nome: Aïsha, diventando la musicista e cantante che oggi conosciamo. Alla luce di questo importante cambiamento, come consideri l’identità? Oggi appare un concetto piuttosto fluido, anche se la società moderna occidentale, per lungo tempo, ne ha restituito una visione monolitica. Risalendo invece alla classicità e al teatro, l’identità ha sempre dialogato con la maschera. Come artista, che rapporto pensi intrattenga con l’autenticità?

AD: Per me la musica è essenzialmente una ricerca dell’identità. All’inizio, ho scelto lo pseudonimo di Kate Wax per marcare una distanza e definirmi come artista. In seguito, approfondendo la conoscenza dell’ambiente musicale in cui mi stavo muovendo, mi sono accorta che i contenuti che volevo comunicare andavano in un’altra direzione. L’industria musicale, a quel tempo, era molto focalizzata sull’intrattenimento e io percepivo una forte discontinuità, tra ciò che stavo facendo e le istanze più profonde della mia identità. Ero piena di domande, che erano la manifestazione di una tensione, che oltrepassava la realtà materiale.

Aisha Devi. Photo: Emile Barret.

Leggevo (e leggo tutt’ora) libri di metafisica, avevo cominciato a meditare, e ad andare in cerca delle mie radici, attraverso ripetuti viaggi in India. Non conoscevo mio padre e la mia condizione interiore non poteva che riflettersi in ciò che stavo facendo. È stato un passaggio iniziatico importante, in tutte le sue forme. La dimensione introspettiva però non era finalizzata ad un ripiegamento su me stessa. Sono stata più volte in Tunisia, nel deserto e lì ho avuto delle visioni, che mi hanno permesso di mettere in comunicazione ciò che stava evolvendo dentro di me, con qualcosa di più universale. Iniziare a percepirmi come un essere umano anziché esclusivamente come Ego, è stata una rinascita, personale e come musicista. Mi sentivo una novizia, un’osservatrice del mondo, avevo bisogno di trascendere il visibile e volevo comunicarlo. Questa condizione mi ha spinto ad adottare il mio nome, con una rinnovata consapevolezza. È stata un’accettazione di me stessa e della mia vita. Ho capito che dovevo trasformare la rabbia che provavo in qualcosa di diverso, perchè il mio messaggio, in quel modo, non poteva essere capito. Ho scelto di abbracciare il mondo e di rivelarlo, esattamente come uno sciamano che, lasciandosi attraversare dalle frequenze, costituisce un varco verso un’altra dimensione.

 

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V: In che modo questa rinascita ha influenzato la tua musica? Mi pare racchiuda un’istanza profondamente politica, che è ricorrente nella contemporaneità. Il digitale ci ha messo nuovamente in contatto col mondo, non credi?

AD: Quando ho iniziato questo percorso, ho capito che non ero più il centro della mia musica, ma una piattaforma di comprensione e comunicazione col mondo. La meditazione, il vegetarianesimo, il bisogno di sentire il mio corpo e trovare la luce, erano guidati da una profonda istanza politica, che nella musica ha ritrovato quel rapporto con le frequenze che stavo evolvendo e ricercando anche altrove. Quando parlo di musica non mi riferisco a quella pop, che comunque ascolto, ma ad una dimensione rituale che accompagna gli esseri viventi dalle origini e per tutta la loro vita. Ho cercato di abbracciare questo ruolo di sciamano moderno, perchè credo che, attraverso la musica elettronica, si possa ripristinare una connessione perduta. Il ritorno alle energie primordiali rappresenta una resistenza nei confronti del materialismo occidentale e del controllo di massa.

V: Parlando di frequenze, quali preferisci utilizzare?

AD: Il mondo è composto da milioni di frequenze, che l’essere umano può percepire o meno. La materia è costituita da frequenze. Per cui l’idea di utilizzarne alcune rispetto ad altre, trovo che sia obsoleta. Io cerco l’armonia. Quando preparo un set per un live, lavoro molto sulla compresenza di tre tipologie di frequenze: le basse, le medie e le alte. Sono tutte necessarie per la mente e per il corpo. Quelle basse assecondano maggiormente la componente emozionale, incidendo sulla parte bassa del corpo e spingendoci a muoverci più lentamente. Quelle alte sono più cerebrali, determinano una maggiore rapidità e ci mettono in comunicazione col Cosmo. Le medie parlano al cuore e si irradiano a partire dal petto. Ogni frequenza è necessaria per raggiungere un bilanciamento. Naturalmente amo molto le basse, che sono escluse dalla maggior parte dei media contemporanei, dalla radio alla televisione, e che ritroviamo nei club. Le basse frequenze sono avvolgenti e ci fanno sentire parte di un collettivo. Anche nel canto esiste la compresenza delle frequenze. I monaci quando meditano, partono dalle basse per arrivare sempre più in alto. Analogamente fanno gli sciamani, che usano la propria voce come guida. Quando canto ricerco esattamente questa dimensione. Ho abbandonato da tempo l’utilizzo della scala occidentale, e con essa, un approccio monolitico alla musica. Meditando il mio modo di cantare è cambiato. È stata un’evoluzione naturale, che mi ha spinto ad avvicinarmi sempre di più ai semitoni, che incontriamo frequentemente nella musica della altre culture, da quella indiana, a quella araba e africana, che hanno la peculiarità di connettere le persone col Cosmo. Nei rituali sciamanici, nei canti gregoriani vengono utilizzate le stesse frequenze. Esiste questo principio rituale nel canto, che ritroviamo a tutte le latitudini, da cui invece la musica pop prende le distanze.

 

 

V: Vecchi e nuovi imperialismi, Alterità e riappropriazione. Qual è la tua relazione con la cultura occidentale e i suoi valori? E con le altre culture e la Natura?

AD: Sono cresciuta all’interno di un contesto culturale e filosofico, occidentale e calvinista, nel quale non ho mai trovato una collocazione appagante. Quando ho cominciato a fare musica, ho realizzato che i miei interessi nei confronti della metafisica, non riguardavano esclusivamente quella cultura, ma potevano e dovevano, spaziare in altre, molto meno materialiste della nostra. Se la ricerca della felicità nella società occidentale ha sempre coinciso col possesso e con la fama, per me trovare strade alternative è stata una necessità. Ritornare in Asia mi ha permesso di riconciliarmi col mio passato e con un sentire che mi apparteneva e rendeva felice, abbracciando una concezione della musica più ancestrale. Una visione del mondo che valorizzasse ciò che è invisibile. Del resto, se pensiamo alle cose a cui teniamo di più nella vita, sono tutte intangibili. L’Amore, per esempio. Quindi l’incontro con l’Alterità, intesa come altri popoli tanto quanto Natura, con cui questi ultimi hanno intrattenuto relazioni molto diverse dalle nostre, rappresenta un bisogno di riappropriazione delle origini, di ciò che per troppo tempo abbiamo ignorato: una dimensione più spirituale. Nel periodo di transizione che stiamo vivendo, questo bisogno emerge con urgenza. Se da un lato i media tendono ad oscurarlo, dall’altro i musicisti lo accolgono come una liberazione.

V: Che ruolo gioca l’immaginazione nel tuo processo creativo?

AD: Non considero l’immaginazione come un tratto della personalità. Penso che rappresenti l’accesso a un’altra dimensione: una sorta di banca dati universale, a cui possiamo attingere, scegliendo tra ciò che abbiamo imparato e ciò che ci arriva attraverso l’intuizione. L’immaginazione è rivolta contro il totalitarismo della cultura occidentale e la tirannia del mainstream.

V: Ritieni che la tecnologia ci abbia permesso, attraverso la virtualità, di comprendere più a fondo l’importanza dell’immaginazione?

AD: Senza dubbio internet ci ha posto di fronte all’esistenza di un mondo immateriale e invisibile. Il potere della mente, la magia, hanno sempre incontrato difficoltà di accettazione in Occidente. Eppure la musica è costituita da frequenze ed è sempre esistita in tutte le culture. Però l’idea di inviare una fotografia da una parte all’altra del pianeta, potendo trasformarla in materia, stampandola, oppure lasciandola vivere nell’etere, ci ha aiutato a focalizzare che non siamo esclusivamente materia, che non esiste un solo stato per identificarla. Che la materia è prima di tutto energia.

V: Internet e la rivoluzione digitale possono spingere la politica in un’altra direzione?

AD: Cinquant’anni fa la società era rigidamente divisa in due: da un lato c’erano le élite dall’altro le masse. La comparsa di internet ha fatto crollare barriere e gerarchie, restituendo il controllo e il potere alle persone. La condivisione è diventata un importante elemento di nuova aggregazione. La società è evoluta rapidamente, sottraendosi alla tirannia. Questo sentire e quest’attitudine hanno avuto un forte impatto anche sulla musica.

V: Come hai trasferito questo cambiamento di paradigma nella tua musica?

AD: Fare musica, per me, è essenzialmente una strategia di resistenza. Mi piace cercare strade alternative al mainstream. Nel contempo, mi percepisco come essere umano, abbracciando sia un approccio da attivista sia da femminista. Sono vicina alle minoranze, perchè sono sempre stata un’outsider. Nella società in cui viviamo, ogni nostro gesto è politicizzato, però è importante agire prima di tutto da esseri umani. Il labelling, la spasmodica ricerca di una codifica e di un inquadramento, non sono altro che la negazione delle energie più profonde che tendono ad unire. La frammentazione e la specializzazione impediscono di evolvere.

V: Quale rapporto hai con la tecnica e la tecnologia?

AD: Sono una geek, adoro le mie “macchine” e il mio computer, che considero un’estensione della mia mente. La tecnologia offre possibilità infinite, il laptop è una connessione istantanea di cervelli, la musica elettronica, essendo costituita da pattern, è come un mantra contemporaneo. L’infinito è sempre presente.

 

 

V: Che relazione esiste per te tra la mente e il corpo? La società occidentale considera il corpo come un grande rimosso. Al contrario, nei tuoi live ha un ruolo centrale.

AD: La voce è un’estensione della mente, che passando attraverso il corpo, lo trasforma in una vera e propria cassa di risonanza. In una piattaforma per la trascendenza. Quando faccio un live e canto, entro in una specie di trance, in uno stato che oltrepassa la coscienza. Analogamente succede ballando, ai rave per esempio, dove la dimensione collettiva oltrepassa quella individuale. La danza di Shiva, i rituali dell’Africa, non sono affatto dissimili dall’esperienza che si fa in un club, dove le pulsazioni del cuore, del corpo, ti mettono in partecipazione col Cosmo. L’aspetto ritmico della musica crea questa sorta di magia. Attraverso il mio percorso di ricerca, il mio modo di cantare è cambiato radicalmente. Quando ero un soprano e cantavo Mozart, Bach, Beethoven, ero rigida. Lavorare sulla respirazione mi ha aiutato a far fluire diversamente le energie attraverso il mio corpo, ripristinando una connessione con la mente.

V: Uno ‘spiritual awakening’ attraverso la musica.

AD: La meditazione è una disciplina e una terapia, e per me è inscindibile dal fare musica. Quando sono in studio è come se ricominciassi a respirare. Mi dimentico dello spazio e del tempo e mi sento umana. Dialogare con un linguaggio non materiale porta a sentire il bisogno di trascendere. Quando compongo uso spesso un synth Roland JP-8080, tipico degli Anni Novanta, quello che ha fatto la storia della musica trance, perchè attraverso quelle frequenze voglio ricreare uno stato ipnotico. Mi piace l’idea che la liberazione avvenga attraverso la tecnologia.

V: Spazio e tempo. In che modo questi due concetti vengono declinati nella musica?

AD: È una domanda molto interessante, che mi spinge a riflettere prima di tutto sulla combinazione tra informazione e vuoto. La musica pop, per esempio, sottopone il nostro cervello a una grandissima quantità di input in pochissimo tempo. Il risultato è una sorta di apnea e soffocamento. Non respiriamo tanto quanto non ci poniamo delle domande su chi siamo. Ho imparato molto sulla musica, quando mi occupavo di graphic design. Nella composizione visiva, lo spazio bianco è un elemento importante per la ricerca dell’armonia tanto quanto il pieno, ossia l’informazione, la tipografica. Così nella musica il silenzio è strutturale tanto quanto il tono. In una traccia dov’è presente un pezzo cantato, abbiamo bisogno di momenti di assenza della voce. Quei silenzi sono però riempiti da un’oceano di frequenze, da un’infinità di altre informazioni. La meditazione mi ha insegnato che il momento in cui la conoscenza si manifesta, è quello dell’assenza di pensiero. Quando si compone è importante creare uno spazio di pausa e di respiro, per permettere la comprensione dell’ascoltatore. Se invece parliamo di spazializzazione della musica, cioè facciamo riferimento a una sua ipotetica fisicità, all’idea di riempire e oltrepassare lo spazio fisico, allora il delay e il reverbero sono gli elementi più ricorrenti per ricreare questa dimensione a partire dalla ripetizione. Nel canto, il delay è un loop della voce nello spazio e nel tempo. Per quanto riguarda il mio percorso artistico, inizialmente componevo aggiungendo molto materiale. Ma non ero mai pienamente soddisfatta. Col tempo, ho capito, che per me una buona traccia deve prevedere un bilanciamento tra il silenzio e l’informazione. È un processo lungo e che prevede una relazione tra l’essere umano e la musica. Quando l’Ego se ne va, arriva la luce e con essa il silenzio. Come ho scritto in una breve poesia che forse includerò nel prossimo album: “L’Ego conosce solo lo spettro visibile, ma la coscienza abbraccia lo spazio infinito e l’eternità”.

 

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