Niente è perduto ma niente è per sempre. La velocità, paradigma moderno, si è trasformata in accelerazione, leitmotiv digitale, con le sue retromanie, tra nuovo folk e riappropriazioni culturali. Il discorso sembra complesso, ma basta qualche esempio per chiarirlo. Cosa c’entra Fiorucci con l’arte? E l’arte con i rave? Perché veniamo spinti nel futuro, pensando che sia tutto finito? Un’anticipazione della fine l’aveva data l’artista britannico Mark Leckey nel 1999 con Fiorucci Made Me Hardcore, una videoinstallazione che doveva molto al linguaggio del videoclip e alla generazione di MTV, dove ripercorreva vent’anni di nightclubbing inglese, tra found footage e VHS, dall’euforia dei Settanta ai rave party dei Novanta. Ma la fine vera e propria era arrivata nel 2011, quando i dodicenni avevano iniziato a dettare le mode su Tumblr. Il mito dell’adolescenza era diventato globale. Si poteva ancora parlare di quell’alchimia che aveva unito musica, appartenenza e stile in nome delle sottoculture? Sì e no, perché il web prende e dà, fa risorgere e deterritorializza. Abbiamo intervistato Alberto Guerrini che col suo blog Gabber Eleganza, in Italia, ha rappresentato e rappresenta un passaggio fondamentale per tutti coloro che vogliano comprendere questo fenomeno, addentrandosi nel mondo delle sottoculture, con una sensibilità estetica e socio-antropologica. 

V: L’avvicinamento al clubbing spesso avviene durante l’adolescenza. Ognuno ha una storia da raccontare, luoghi che hanno accompagnato notti, pomeriggi, albe. Chi correva in autostrada, chi sulle statali. Qual è stato il tuo primo incontro con la musica e il mondo gabber?

GE: Sono nato tra Bergamo e Brescia, un territorio che, verso la fine degli Anni Ottanta, ha visto nascere molte discoteche. Un fenomeno non dissimile da quello della Riviera Romagnola, diventata in breve tempo, in maniera quasi inconsapevole, un centro nevralgico dell’intrattenimento in Italia e per buona parte della zona mediterranea. Bergamo e Brescia, essendo città satellite di Milano, hanno cercato di differenziarsi da subito, puntando su delle sonorità più aggressive: l’hardcore, la progressive e inventandosi mecche del divertimento come il Number One e il Florida. La Pianura Padana non offriva molto, a parte desolazione, nebbia, trattori, paesi dormitorio. Per cui è stata un contesto perfetto per l’infiltrazione della cultura gabber, da sempre legata anche in Olanda, Germania e Belgio al suo environment sociale, a situazioni di isolamento culturale ed economico. Ricordo che il mercoledì era il giorno del mercato, dove c’erano le bancarelle dedicate alla musica. E furono le cassette pirata delle discoteche, esattamente come le giornate passate al luna park, a farmi conoscere questo nuovo mondo, caratterizzato da una musica aggressiva, nuova ma anche molto intuitiva. Non è un caso che il primo dj set come Gabber Eleganza l’abbia fatto per il progetto artistico Padania Classic di Filippo Minelli. Lui è di Brescia e ha compreso immediatamente la mia idea di evocare “il sound dell’A4”.

V: Quindi prima è venuta la musica..

GE: Sì, l’incontro con l’hardcore è avvenuto prima dell’adolescenza. I gabber li ho scoperti dopo, quando sono andato al liceo. Lì c’erano ragazzi più grandi che frequentavano il Number One, mentre io ancora ascoltavo l’hardcore nei bar. È stato uno di loro a introdurmi alla questione estetica, distinguendo, tra i frequentatori delle discoteche, gli zarri dai gabber. Ero piccolo ma ho capito subito che quel look, così pratico per ballare: una tuta e delle Nike, a cavallo degli Anni Duemila potesse essere considerato, utilizzando il linguaggio della sociologia contemporanea, lo stile di una sottocultura. Così l’ho adottato. Compravo dischi, andavo alle feste. Non essendoci internet ho imparato a ballare guardando le videocassette. Naturalmente tutto arrivava un po’ in ritardo in Italia, quindi le mie conoscenze e il mio look rispetto alle tendenze erano indietro di qualche anno. E anche la crisi di questa scena, che il Olanda era diventata davvero popolare, da noi è avvenuta in ritardo, soprattutto quando una componente essenziale del fenomeno è diventata la droga. Restrizioni da parte dei locali, baby gang, tutto si è frammentato fino a perdersi, per ricostruirsi successivamente in maniera meno compatta, più ibrida.

Photo: Michele Stoppa.

V: Parliamo ora di Gabber Eleganza. Quando e perchè hai deciso di aprire un blog che parlasse di musica ma con un taglio orientato allo stile alla maniera di fanzine e style magazine?

GE: L’ho aperto nel 2011. Inizialmente non aveva una finalità precisa, era semplicemente un modo per esprimere la mia passione per l’editoria indipendente in una maniera più contemporanea. Per affinarlo c’è voluto tempo, i primissimi post erano composti da screenshot di video di Youtube con i quali facevo decaloghi di stile. Successivamente ho iniziato a raccogliere materiale, di fonti ne conoscevo molte e lentamente ho introdotto elementi slegati dall’immaginario hardcore-gabber, provenienti dalla moda o dall’arte, ma che con esso dialogassero, rendendolo più cross-disciplinare. Lo spirito era sempre lo stesso. Gabber Eleganza è un ossimoro, quindi dichiara in partenza il gioco comunicativo che sta dietro. Non si tratta di riportare in vita una cultura del passato, o di riappropriarsene nostalgicamente, è piuttosto un modo di catalogare e selezionare stilemi con cui produrre qualcosa di nuovo. Non mi considero un musicista, però quando Lorenzo Senni nel 2016 mi ha suggerito di farlo evolvere in un progetto musicale, ho pensato che fosse la strada giusta. E quest’anno uscirà sulla sua label, Presto!?, un primo Ep.

V: E come l’hai affrontato?

GE: In realtà è molto breve, sono tre pezzi da cinque minuti l’uno. Su cui ho lavorato in maniera più registica. Ho utilizzato Ableton per buttare giù le idee e poi sono andato in uno studio, dove mi hanno aiutato a realizzarle. L’approccio è simile al blog, ho raccolto degli stilemi dell’hardcore e ho lavorato per astrazione e sottrazione. Aggressività e velocità sono le caratteristiche principali del genere. Quindi sono andato a togliere. Per esempio, nel pezzo più rave, dove c’è la classica cassa hardcore in 4/4 ho tolto il secondo e il quarto quarto.

V: Torniamo allo stile. Come veste un gabber?

GE: L’estetica gabber , quella che piace a me, è semplice: una tuta comoda, un paio di scarpe usate, che devono trasmettere l’idea di aver partecipato a molti rave e la testa rasata. Niente piercing, al massimo degli orecchini, quelli classici da pirata; il bomber, che richiami l’etichetta discografica preferita. Stesso abbigliamento per le donne, quindi molto androgino. Al massimo una coda o una treccia, con i capelli rasati ai lati. Per l’uomo, sotto il bomber il petto rigorosamente nudo con la catenina d’oro della comunione, o una maglietta bianca. Per le donne: reggiseno o top da tennis. Questo è il look classico da gabber. Ci sono state poi delle contaminazioni con alcuni marchi inglesi skinhead, tipo Lonsdale, Fred Perry, però io preferisco i marchi di riferimento come l’Australian. Spesso erroneamente vengono citati alcuni marchi sportswear degli Anni Novanta come Kappa e Sergio Tacchini come emblemi della cultura gabber, ma non lo sono. L’Australian è l’unico marchio al 100% gabber Anni Novanta. Le tute sono in acetato e molto colorate. Naturalmente oggi c’è ibridazione, penso alle banlieue francesi o a Gosha Rubchinskiy e alle contaminazioni con l’estetica suburbana, delle periferie dell’Est Europa. La working class rimane un immaginario di riferimento molto forte.

Photo: Michele Stoppa.

V: La moda negli ultimi anni sembra avere riscoperto questa cultura..

GE: Sì, ma in maniera sempre piuttosto superficiale. Esistono pochi designer che l’hanno interpretata correttamente, ognuno di loro ci mette poi del proprio. Il primo è stato Raf Simons nel 1999. Aveva realizzato una collezione interamente dedicata all’hardcore, in un periodo in cui era un tabù in Olanda. Quindi è stata una scelta coraggiosa. Quest’anno è stato riscoperto, diversi fashion designer hanno utilizzato stilemi gabber nelle loro collezioni. Di recente ho collaborato con Dior come music supervisor, perchè hanno realizzato un video sull’hardcore, dove si alternavano modelli e ballerini. Ho supervisionato la coreografia e la musica. Non è stata la mia prima collaborazione, non nutro resistenza nei confronti della moda, però quando si parla di appropriazione culturale credo si debbano fare dei distinguo: c’è chi si avvicina ad un’altra cultura o a delle culture specifiche con rispetto e coscienza e chi lo fa per seguire il trend, senza interesse né approfondimento. La moda spesso è business travestito da arte, quindi l’appropriazione è rapida e poco attenta alle simbologie e ai significati che si smistano.

V: Da un punto di vista musicale, quali sono i tuoi riferimenti nell’hardcore?

GE: L’hardcore olandese, l’early hardcore e l’industrial, inglese o americano. Devo dire che le sfaccettature dell’hardcore mi interessano tutte, naturalmente per alcuni generi nutro una passione molto personale, come quello olandese appunto, che è più catchy. Nell’Hakke Show suono però esclusivamente hardcore del periodo che va dal 1993 al 1999, quindi old school. Mentre nei dj set mi muovo più liberamente, mi può capitare di introdurre sonorità più astratte o ambientali, oppure più spezzate, grime, che utilizzino magari suoni dell’hardcore così da sfociare nell’hardcore vero e proprio con un crescendo di bpm.

V: Come sarà la performance che farai a Club To Club?

GE: Farò un dj set hardcore Anni Novanta, old school, e ci saranno dei ballerini. La performance si chiama Hakke Show, con riferimento al tipo di ballo (hakke) della cultura gabber. Hakke significa tagliare, con le mani e le gambe, l’aria, seguendo i bpm, che generalmente vanno dai 160 ai 180. È molto impegnativo, per questo motivo negli ultimi anni ho coinvolto ragazzi più giovani oltre ai miei amici storici. Si tratta di nuovi gabber, quindi viene fuori un bel mix generazionale.

 

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