Grande attesa a Venezia 78, dove è stato presentato fuori concorso, e anche in sala, da oggi, per l’uscita di Dune, la prova epocale di Denis Villeneuve, chiamato a confrontarsi col romanzo fantascientifico di Frank Herbert, dopo i tentativi parzialmente o completamente “falliti” di David Lynch e Alejandro Jodorowsky. Quest’ultimo in particolare non è mai riuscito a portarlo sullo schermo, ma il suo sforzo immaginativo è entrato nel mito e nella leggenda. La difficoltà, come tutti sappiamo, riguarda principalmente l’adattamento, la complessità dell’opera non solo dal punto di vista della storia ma di quel costrutto di filosofie e saperi che l’hanno resa unica nel tempo e avanguardista, con le sue riflessioni sull’ecologia. Il regista canadese su questo aspetto mette subito le cose in chiaro, suddividendo il film in due capitoli, dando spazio nel primo a un lunghissimo e affascinante prologo, molto fedele al romanzo.

Viene così riproposta la faida tra le nobili Casate galattiche degli Atreides e degli Harkonnen (ordita invero dall’Imperatore per eliminare gli Atreides) per il controllo di Arrakis, pianeta inospitale ma importante per l’Impero, perché nel suo territorio si trova una risorsa molto rara, chiamata “la spezia”, una droga che ha diverse proprietà: allungare la vita, prevedere il futuro, ampliare tutte le facoltà della mente umana e consentire i viaggi stellari, fondamentali per i traffici commerciali e quindi per tutta l’economia dell’Impero. In un cast che non risparmia grandi nomi, tra cui Oscar Isaac (attore del momento, presente a Venezia con ben tre produzioni), Zendaya, Jason Momoa, Rebecca Ferguson, Stellan Skarsgård, Charlotte Rampling, Javier Bardem e molti altri, spicca il volto di Timothée Chalamet, nei panni di Paul Atreides, figura cristologica e shakespeariana, che incarna l’eletto, l’“esito positivo” di un lungo programma genetico avviato dalla sorellanza esoterica Bene Gesserit, e colui che è chiamato a salvare la propria casata, grazie al sodalizio con i Fremen, popolazione che abita il deserto di Arrakis, dove dimorano anche i giganteschi vermi della sabbia.

Dune, Denis Villeneuve.

Senza dubbio Denis Villneuve è un regista che ha saputo ripensare il genere blockbuster in un ottica più “art house”, espressione con cui vogliamo identificare il suo distacco dalle produzioni eccessivamente commerciali che stanno dominando il mercato dell’intrattenimento e la sua inclinazione alla messa in scena di una fantascienza adulta e complessa. Va detto però che il suo film più compiuto rimane Arrival, perché Blade Runner 2049 può essere considerato un’anticipazione delle problematiche che ritroviamo in Dune, ovvero la spaccatura tra lo sforzo visivo e il dispiegamento del meglio della spettacolarità immaginifica e la debolezza dello storytelling. Dune non solo ha una prima parte molto dettagliata, rispetto a una seconda troppo aperta, risolta più velocemente e sfilacciata, ma non è in grado di imprimersi nella memoria. Se pensiamo alla saga di Star Wars e a George Lucas, che sicuramente si è ispirato al romanzo di Herbert, non possiamo non notare quanto le due sfere siano complementari, al punto da renderla molto più riuscita.

Dune, Denis Villeneuve.

Il Dune di Villneuve è sicuramente un film che lascia il segno e apre degli scenari, anche una rivoluzione degli equilibri, se vogliamo, nel genere fantascientifico, che in passato ha avuto prevalentemente un imprinting molto maschile, ma che soprattutto riporta alla mente la migliore speculazione immaginifica in ambito architettonico. Un tradimento, forse importante da sottolineare, nei confronti del romanzo, è non aver saputo esprimere le derive più psichedeliche, allucinogene, di apertura delle “porte della percezione”, per dirla alla Huxley, che rappresentano l’aspetto più visionario dell’opera, ma che oggi sono decisamente fuori moda, in un epoca in cui la tecnologia ha sterilizzato le sensibilità e le potenzialità altre della mente. Denis Villeneuve è il regista giusto per raccontare anche quesa trasformazione, ossia come il mondo si stia ripensando esclusivamente in un’ottica razionale, dove anche l’emozione diventi una ricetta, deprivata sia dell’inconscio sia della follia, e l’impegno politico si trasformi nell’imperante, per quanto vacuo e di poco spessore, richiamo all’attivismo.