Ha ancora senso la figura dell’autore? È ancora in grado di parlare a qualcuno? Sebbene nel mondo cinematografico, come in qualsiasi altro mondo, sia importante sottolineare la partecipazione collettiva alla creazione di un’opera, è anche vero che ciò che contraddistingue un autore è la sua peculiare voce, la sua visione del mondo. Ma non tutti hanno qualcosa da dire, molti preferiscono nascondersi tra le fila collettive, senza prendersi troppe responsabilità. Ciò che distingue un autore, invece, è il rischio. Quello che corre ogni volta che prende parola, soprattutto nel cinema. Queste le riflessioni scaturite dalla visione di Making of di Cèdric Kahn, presentato Fuori Concorso a Venezia 80.

 

Making of, Cèdric Kahn.

Denis Podalydès diventa per Kahn il prototipo del regista in crisi, in un film che racconta il cinema dall’interno, mettendo a confronto un prima e un dopo umano e professionale. Da un lato abbiamo Simon (Denis Podalydès) che a cinquant’anni è più affranto dalla stanchezza che ispirato dagli ideali di cui il suo film vorrebbe farsi portavoce, che narra della presa di una fabbrica da parte degli operai per evitare la delocalizzazione. Dall’altro c’è il giovane Joseph (Stefan Crepon), cooptato casualmente sul set per realizzare il making of del film, liquidato come incombenza d’appendice che non riscuote il plauso o l’interesse di nessuno, che incarna invece il talento grezzo e la passione che scorrono nelle vene di un futuro cineasta. I due personaggi come in una danza si sfiorano, si lanciano e si ritraggono fino a incontrarsi, come in uno specchio, però è il tempo che li separa. Joseph potrebbe diventare un futuro Simon, disilluso e stanco, in procinto di essere abbandonato dalla moglie e ossessionato dal cinema al punto da venirne completamente risucchiato e snaturato? Non lo sapremo mai e non è ciò che Kahn indaga, perché Joseph è lì con la sua curiosità, la sua intelligenza, la profondità del suo sguardo e anche l’intemperanza del suo amore improvviso e impulsivo per Nadia (Souheila Yacoub), la co-protagonista del film, per ricordarci che quando si parte dalla periferia del mondo con un sogno in tasca, non c’è spazio per i sentimenti crepuscolari, per l’indecisione, i ripensamenti o i rimpianti di una vita che non è ancora stata vissuta.

 

Making of, Cèdric Kahn.

Riflessioni di natura esistenziale sì, ma stiamo parlando di una commedia, per quanto disincantata. A cui infatti manca il simbolico girotondo morettiamo (invero giravolta) de Il Sol dell’Avvenire (Simon e Giovanni, non a caso, si trovano inizialmente nella medesima condizione. Non hanno forse smesso di credere nell’avvenire?), sintomatico di una rinascita che questo film lascia sullo sfondo, come dubbio, perché nel confronto finale tra Simon e il produttore ritornato, si parla del cinema come di una droga, un’esperienza che genera dipendenza e che consuma. Una visione opposta a quella di Moretti, più felliniana nel suo approccio metacinematografico, dove il girotondo rappresenta la gioia ritrovata, il senso che si realizza attraverso gli innumerevoli incontri che questa vita “nomade” ti regala. Kahn invece è più tragico e il suo Simon, che vorrebbe lottare per un cinema politico più crudo, autentico e pessimista, si trova più che altro a rivivere ciò che sta mettendo in scena.