Luci intermittenti e sopraelevate, seminterrati stipati di sorrisetti e mutandine abbassate, anguste vie bagnate e buie come pece, nugoli di topi intorno a ristoranti con uomini accasciati tra la spazzatura, sale di pachinko brulicanti, le notti randagie a Tokyo sono un safari urbano degno di Neuromante.

Tokyo, 2016. Photo: Carlotta Petracci.

Non c’è fine del mondo più suggestiva, di quella che si può immaginare in una umida notte di Tokyo, sconvolta dagli uragani. Ticchettio, cielo plumbeo. La pioggia sembra non voler abbandonare Milano. Scroll. Apro Instagram, la mia memoria fotografica digitale, i tempi si comprimono. Un taxi lanciato in corsa in mezzo ai riflessi giallo-arancio. Mi ricordo quella notte. Nell’incomunicabilità dei primi giorni, nessuno mi ha avvisato, ho preso in pieno un thypon. Dalle parti del Golden Gai non c’è un’anima, solo un uomo di mezza età, ricurvo, che in un batter d’occhio si dilegua in un anfratto, come uno scarafaggio. Il vento, fortissimo. La pioggia, a secchiate. Il buio, alternato da luci al neon. Cerco riparo sotto una pensilina inesistente, poco distante dalle anguste vie di uno dei quartieri più cinematografici di Shinjuku. In un guazzabuglio tortuoso di serpentine sterrate, e debolmente illuminate, si susseguono una cozzaglia di bar, poco più grandi del loro bancone, dove white collar e turisti asserragliati, si scavalcano per l’ultimo goccio fino al mattino, ebbri di un’euforia sommessa e sguaiata. In tutta la città pulsa questa atmosfera di silenzio apparente e sonnolento, ma basta aprire una porta, avvicinarsi a quel fiume di formichine che invadono le strade, al vetro di un negozio e di colpo è un’esplosione di rumore. Un vociare ininterrotto, assordante, penetrante, un fruscio ad altissimo volume, inframezzato da suoni acuti e tintinnanti, come nelle sale di pachinko.

Pop porno ad Akihabara

Me ne sto seduta contro il muro, persa nelle nuvole di fumo che escono dalla mia bocca, mentre la cenere cade su una moquette malconcia, fucsia e violetta. I giorni passano, la pioggia non dà tregua. Gli uragani si susseguono (ben tre in una settimana). Verso sera cerco rifugio, mi piace perdermi tra gli uomini, di tutte le età, tra slot machine e cunicoli stipati di manga porno ad Akihabara. Sono una presenza scomoda e curiosa. Me lo sento addosso, come i loro sguardi che ricambio ammiccando mentre sparisco dietro una tenda purpurea. Collegiali. Ne sono piene le pareti, gli album, gli espositori. Nell’ultima stanza dei seminterrati ci si arriva cercando sorrisi innocenti e gonnelle in tartan. Mutandine abbassate e lolite bagnate. L’ossessione per la sessualità è contemporaneamente un gioco e una perversione, in una società dove il piacere è a misura di adolescente e cyberspazio. The Electric Town, è così che viene chiamata Akiba (diminutivo di Akihabara), il distretto ipertecnologico di Tokyo, dove tutto si nasconde e diventa vetrina, dalle ninfette vestite da cosplay accalappia turisti fuori dai bar, agli store multipiano stracolmi di videogiochi, apparecchi elettronici, anime, action figure, fino al più sperduto bugigattolo dalla dubbia legalità, dove trovare hardware, software e qualsiasi rarità dell’usato.

Tokyo, 2016. Photo: Carlotta Petracci.

Solitudine a Shibuya

Sono passati gli anni del boom economico, ma la tecnologia a Tokyo si fa ancora paesaggio. Le autostrade dell’informazione diventano vie a scorrimento veloce, le opzioni multiple della rete ricordano l’intreccio delle sue sopraelevate. Le sale di pachinko chiudono presto ma la notte non finisce mai, la città vive in un’alternanza costante di iperdensità e vuoto. Le distanze sono smisurate, la geografia a punti e salti. Abbandonati i quartieri conosciuti, ogni angolo è un crocevia tra il nulla e la scoperta. A Tokyo di notte ci si orienta facendosi abbagliare dalla città elettrificata oppure addentrandosi in quella silenziosa, che si espande sotto il cielo metallico. È quasi mattina, dalle parti di Shibuya cammino col mio caffè caldo nelle retrovie dei ristoranti, illuminate dalle ‘aurore boreali’ delle arterie principali. Qualche topo impaurito urta un uomo accasciato tra la spazzatura. Scambio quattro chiacchiere per un sakè, mentre i ritmi della notte e del giorno si confondono. C’è chi lavora alacremente e chi barcolla fuori dai bar. Entro in un 7-Eleven, per ammazzare il tempo prima dell’alba. Onigiri al tonno. Ogni viaggio ha le sue folli abitudini. Nei pressi della stazione le passerelle iniziano a essere punteggiate da camicie bianche e valigette. Andata o ritorno? Basta un safari notturno per capirlo. Camicia bianca inamidata, i Tokyoti stanno ordinatamente andando al lavoro. Sbottonata, stropicciata e accompagnata da una capigliatura alla Son Goku (il protagonista di Dragon Ball), sono alla ricerca disperata di un capsule. Sulla banchina lascio passare un treno dopo l’altro. Sono già pieni come scatolette.

Sangue al naso al Party Monster

Bizzarra e composta. Iperpopolata e caotica. Tokyo potrebbe essere la deflagrazione umana di Delhi se non fosse per le sue regole. O per quella che ho definito: la castrazione dell’età adulta. Scroll. Questa volta non è Instagram. Sono in un bagno multicolore, con una sconosciuta sulla quarantina vestita da strega, che continua a colarsi sangue finto dal naso. M. dall’Australia al Giappone, due figli, un ex marito, molti amici insoliti, un passato da dj sulla cresta dell’onda. Quella sera star, forse meteora, del Party Monster, una one night a tema dall’atmosfera totalmente Harajuku. Un drink dopo l’altro, ma ricordo ancora le sue parole: “Tokyo è una città fantastica, me ne voglio andare. Domani vieni a pranzo da me. Non sposare mai un giapponese”.

 

carlottapetracci.com