Inaugura il 18 febbraio 2016 a Bergamo con il titolo The Four Seasons la prima personale italiana di Ryan McGinley, fotografo e autore statunitense, tra i più influenti del contemporaneo, che ha fatto innamorare intere generazioni. La mostra racconta l’aspetto più romantico delle sue produzioni, quello più legato al mito del buon selvaggio e all’armonia col mondo naturale. Ma per inquadrare a pieno l’aspetto prismatico delle sue narrazioni e dei suoi messaggi e per comprendere il motivo del suo fascino dirompente, dobbiamo partire dalla storia di un giovane ragazzo del New Jersey, in bilico tra fuga ed esplorazione dell’immaginario.

Ryan McGinley, Stretch Out and Wait, 2011.

Libertà, giovinezza, poesia. Bastano poche parole per descrivere il lavoro di Ryan McGinley, oggi considerato uno dei più importanti fotografi d’America e uno dei nomi che meglio hanno saputo interpretare lo spirito e l’estetica degli Anni Duemila. A child on the road, così potremmo definirlo, per la sua attitudine al viaggio, data dalla preponderanza del paesaggio nelle sue fotografie e per quel sentimento di esplorazione e abbandono che traspare nei volti dei modelli e delle persone che ritrae. Nato in una numerosa famiglia del New Jersey, con alle spalle la morte del fratello per AIDS, McGinley inizia a fotografare e a farsi conoscere con l’arrivo nell’East Village a New York nel 1998. Considerato “the pied piper of the downtown artworld”  (il pifferaio magico del mondo dell’arte del centro città) e iconizzato come il fotografo dell’adolescenza, già dalla sua prima mostra auto-prodotta The Kids Are Alright, la sua visione ha trovato terreno di confronto, ispirazione e restituzione in una gran varietà di media: dalla pubblicità ai video musicali, al cinema. Con una personale al Whitney Museum, a soli 25 anni, stracolma di occhi neri, nasi sanguinanti, ragazzi tatuati, ragazze sballate, corpi nudi e capelli bagnati, ha tradotto con algida malinconia il sentire di una generazione, contemporaneamente forte e fragile. Del resto, la storia che racconta a vent’anni è quella della sua adolescenza, quando dal New Jersey raggiungeva New York per fare skate con gli amici.

Ryan McGinley, Wet-Blaze, 2013.

In McGinley la fotografia abbraccia una visione edonistica. Molti vedono in lui suggestioni di Larry Clark o Nan Goldin, ma la differenza è sostanziale. Il mondo che rappresenta McGinley non ha nulla di penoso o ansioso, al contrario è leggerospensierato e anche in totale armonia con la Natura. In lui c’è molto della Beat Generation, di quel generoso e curioso errare tra utopia e giovinezza. Nelle sue fotografie c’è l’America, manifesta e nascosta, ma anche una documentazione appassionata della sua vita, dei suoi amici, della realtà di tutti i giorni. C’è New York tra skaters, musicisti e graffitari, la natura del buon selvaggio e c’è l’omosessualità, ma anche in questo caso, non come peso. Gran parte delle sue ispirazioni vengono dall’intensa meraviglia provata di fronte a Days of Heaven di Terrence Malick, che ripropone attraverso un’atmosfera sognante, a tratti sonnolenta e soave. Sibillino a questo proposito è titolo di una sua mostra alla Team Gallery di SoHo: I Know Where the Summer Goes. Nella sua capacità di ritrarre la fuggevolezza dei momenti che incontra, infatti ricorre quel dolce-amaro della fine di qualcosa. Non la fine di tutto, semplicemente di un’estate o di una stagione della vita. I suoi protagonisti sono spesso immersi in qualche sostanza o situazione – la luce che impressiona la pellicola, l’acqua, i fiori, gli alberi, le fronde, la notte – restituendoci un’intensa sensazione di benessere. Questa condizione però non va interpretata come spiritualità, non c’è il distacco tipico dell’Io in rapporto col Mondo. In McGinley il corpo è al centro. Nudo. E la nudità è una condizione naturale, che prende anche la forma dello scherzo chiassoso in una vasca.

Ryan McGinley, Untitled (Bathtub), 2005.

Everybody Knows This Is Nowhere” è un’altra mostra, particolarmente rappresentativa del tema conduttore della fotografia di McGinley. Si tratta di una serie di nudi in bianco e nero che però non sono riconducibili al lavoro di un fotografo da studio, bensì di un animo errante. La strada, nonluogo tipico della mitologia dell’andare americana, diventa infatti per Ryan il punto di contatto tra Easy Rider The Americans di Robert Frank. Con una buona dose di Jack Kerouac. Non ci troviamo di fronte al bisogno di esplorazione del mondo ma dell’immaginario americano, fatto di metropoli, Midwest, West Coast, New Mexico. Stiamo parlando del viaggio ricorsivo che l’America, da generazioni fa su stessa, attraverso i suoi autori, mostrandoci ogni volta un territorio conosciuto e allo stesso tempo nuovo. Nuovi sono i volti e i corpi esili, androgini e diafani, incontrati ai festival rock e nelle scuole d’arte e che ricreano, in viaggio, quella grande famiglia di fratelli e sorelle in cui è nato. Nuovo è il modo di raccontare: fuori fuoco, in movimento, analogico, con la sua Leica, in un’epoca che muove verso una fotografia pubblicitaria impeccabile e un cinema carico di ricercatissimi effetti speciali. E nuova è l’idea di intraprendere un viaggio, con gli amici più stretti, tra cui la fotografa Petra Collins, tra i suoi soggetti preferiti, o modelle in van e camper, alla ricerca di avventure ed esperienze autentiche, per collezionare attimi spontanei e innocenti. O per dirla come Robert Frank, per cogliere “l’umanità del momento”.

Ryan McGinley, Untitled (Double Falling Sunset), 2007.

Non bisogna però confondere l’estetica “diaristica” e il punto di vista intimo di McGinley – che ritroviamo in forme diverse in altri autori, tra cui Robert Frank, Nan Goldin, Larry Clark, Juergen Teller, Jeff Luker – con l’interesse vero e proprio per la documentazione. La sua non è una fotografia documentaria tantomeno sociale. Se inizialmente ha incorporato un aspetto ossessivo, si è poi trasformata in un vero e proprio lavoro di fantasia estremamente realistico. Al punto che, in un secondo momento della sua carriera, dopo i primi 2000, ha cominciato a focalizzarsi sulla Natura e sul nudo in maniera più plastica e composta, forse come risultato del progressivo impegno in studio e nell’ambito della fotografia pubblicitaria. Che ci sia un po’ di “naturale perduto” nel McGinley più adulto, forse sì. Ciononostante rimane uno dei fotografi, della sua generazione, più generosi, capaci di ritrarre e regalare la meraviglia della loro giovinezza.

 

Ryan McGinley / The Four Seasons
a cura di Stefano Raimondi
18 febbraio – 15 maggio 2016
gamec.it

ryanmcginley.com