Nel corso degli ultimi decenni del XX secolo, a seguito della progressiva riduzione degli orari collettivi di lavoro e della maggior flessibilità consentita dallo sviluppo delle tecnologie telematiche, il tempo libero, esaurita la tradizionale funzione di momento di riproduzione della forza lavoro, tende a configurarsi sempre più come spazio autonomo di formazione di identità individuali e collettive. Il loisir, il tempo per sé, il tempo che l’individuo spende per migliorarsi dal punto di vista fisico, culturale o spirituale, diventa il campo di applicazione di queste nuove identità, una nuova importante agenzia di socializzazione orizzontale, che gradualmente sottrae alla fabbrica fordista il ruolo centrale di motore dell’aggregazione sociale e di formazione delle gerarchie di potere. In questo processo di trasformazione economico-sociale quelle che erano considerate semplici occasioni di impiego del tempo libero (hobby, svaghi, passioni, viaggi) diventano il riflesso di un nuovo bisogno di rappresentarsi, l’espressione di una determinata vocazione, l’archetipo e il condensato simbolico di un particolare sistema di valori attorno al quale l’individuo costruisce il proprio stile di vita e in funzione del quale si rapporta con il mondo esterno.

Cape Town, South Africa. Photo: Leo Moko.

Archetipi che si configurano come generatori di aggregazioni comunitarie e nuovi “segmenti” di un “mercato” valoriale globale. Si tratta infatti di “comunità-segmento” che non ricalcano più i tradizionali modelli di comunità e di segmento di mercato, siano essi di matrice etnica, geografica, religiosa, ideologica, socio-demografica o economica, bensì rispondono a istanze valoriali generate e alimentate dall’universo dei mezzi di comunicazione di massa e alla loro logica reticolare. Zygmunt Bauman le definisce “comunità-gruccia”, comunità immaginate o estetiche, create dall’industria dello spettacolo, della moda e della pubblicità; fondate su relazioni di piacere, responsabilità fluttuanti e idolatrie schizofreniche. Comunità effimere, comunità per sé più che in sé (Appadurai Arjun, Modernità in Polvere), comunità che consumano e che si consumano, rinnovandosi continuamente. Il carattere onnivoro dei mass media e il loro inesausto bisogno di alimentare e rinnovare i palinsesti infatti ha come effetto la compresenza simultanea di molteplici punti di riferimento valoriali, che strutturano reticoli comunitari in costante rimescolamento all’interno di tutto il mondo occidentalizzato, sottoposto, dalla pervasività dei circuiti comunicativi, alle medesime istanze, che sono a loro volta soggette a processi di “indigenizzazione” (Appadurai Arjun, Modernità in Polvere).

Cape Town, South Africa. Photo: Leo Moko.

In termini di marketing si parla di comunità che si configurano come segmenti globali di consumo, “nicchie” di consumatori diffuse a “macchia di leopardo” in tutto il mondo postindustriale. Tra questi “segmenti” e l’universo delle comunicazioni di massa si stabilisce perciò una corrispondenza biunivoca: un gioco delle parti, in cui i mass media da un lato fungono da grande enciclopedia dei valori in campo; dall’altro vengono stimolati e “riforniti” dalle suggestioni che emergono da questi “anfratti” del corpo sociale. L’adesione alle comunità viene espressa dall’individuo essenzialmente per mezzo di azioni legate alla sfera del consumo. È attraverso il consumo, di oggetti, luoghi, eventi, di merci-comunicazione, che l’individuo si autodefinisce in rapporto al gruppo e comunica – all’interno e all’esterno di questo – la propria condizione di appartenenza. Ciascuna aggregazione dà luogo a un reticolo di consumo originale e composito che comprende indifferentemente forme tradizionali di beni e servizi, attività, prodotti dell’industria culturale e di tipo turistico. In questo reticolo ogni singolo prodotto è parte integrante di un circuito di comunicazione-consumo ed è posto in relazione diretta con tutti gli altri della filiera.

Cape Town, South Africa. Photo: Leo Moko.

La figura dell’individuo-consumatore “parcellizzato” viene destituita di senso e si parla piuttosto di un consumatore operante in un unico spazio sociale: un consumatore che acquista di volta in volta la “qualità” di lettore, turista, spettatore, in una dinamica di comportamenti senza soluzioni di continuità. Col passare del tempo e l’intensificarsi delle “passioni”, i legami tra i prodotti posti all’interno dello stesso reticolo tendono a consolidarsi e a dare vita a un vero e proprio sistema culturale. Non a caso nella composizione e nello sviluppo di questi reticoli valoriali un ruolo particolare è svolto dagli eventi di comunicazione che, oltre ad assolvere a una funzione mitopoietica, rappresentano anche un’occasione di “visibilità” per gruppi di individui che per la particolare natura dei legami che li uniscono potrebbero apparire – se raffrontati alle forme comunitarie tradizionali e territoriali – prevalentemente “virtuali”. Le comunità postindustriali infatti sono fluide, nebulari, effimere, differenti rispetto a quelle della prima modernità, mentre presentano similitudini e punti di contatto con quelle pre-industriali; nel senso che, come quest’ultime, riescono anch’esse a dar vita a sistemi di codici, simboli, riti riconoscibili, perduranti nel tempo e coerenti con la definizione di “stile”.

“Nicchie di stili di vita” (Bellah, in Griswold Wendy, Sociologia della Cultura, pag.201) è l’espressione utilizzata per descrivere queste nuove aggregazioni di persone: tenute insieme più dalla somiglianza che dalla geografia. La parola comunità, infatti, come osserva Wendy Griswold, possiede due significati: l’uno si rifà al concetto di territorialità, l’altro a quello di relazione. La comunità intesa nella sua accezione territoriale è qualcosa che può essere localizzato su una mappa, che si qualifica in rapporto alle proprietà spaziali: confini, centro e periferia; mentre la comunità intesa come entità relazionale pone l’accento sui legami che la fondano, come: reti di comunicazione, consumo, amicizia, associazione, sostegno reciproco; e possono prescindere dall’ancoraggio territoriale. I suoi membri, nonostante la dispersione geografica e la conoscenza indiretta, filtrata o mediata, possono comunque costituire una collettività significativa e autocosciente. In passato la considerevole sovrapposizione tra i due tipi di comunità rendeva quasi superflua la separazione terminologica; oggi, invece, in una società mobile, differenziata e connessa da molteplici reti, bisogna riconoscere la distinzione tra comunità territoriali e relazionali.

Cape Town, South Africa. Photo: Leo Moko.

A fondare una comunità infatti non sono solo le abitudini, ma anche la cultura, la quale oggi, predisponendosi al viaggio, alla traduzione, alla tribalizzazione e alla contaminazione con comunicazione e consumo, diviene extra-territoriale. Si parla così di nicchie culturali dislocate in diverse parti del pianeta e non più necessariamente omogenee. Nell’attuale società della comunicazione e dell’informazione le persone infatti esistono attraverso legami multipli, ossia attivando e smistando differenti reti di significati. Di qui la rilevanza assunta dalle riflessioni che pongono l’attenzione sulle nuove forme di organizzazione tribale (Maffesoli Michel, Il Tempo delle Tribù) e reticolare che interessano la moderna società globale, in cui economico e culturale sono diventati indistinguibili e fanno tutt’uno con la formazione di nuove identità individuali e collettive, che non si riconoscono più entro i confini etnici o dello stato-nazione. Le tribù, per le quali consumo e comunicazione sono dimensioni imprescindibili, sono infatti aggregazioni spontanee e temporanee dall’aspetto nebulare, che si fondano sulla condivisione di interessi e emozioni, e si predispongono all’attraversamento dei soggetti e dei paesaggi: siano essi reali, virtuali o immaginari.

Sono la risposta meno chiara e più compiuta al mondo contemporaneo, formato e informato dalla globalizzazione, con la sua estrema varietà di comunità: da quelle residenziali, che acquistano l’accesso a mondi di vita, a quelle legate allo scambio; da quelle etniche, sia reali che immaginarie, a quelle transculturali generate dall’immigrazione e che prescindono dai confini e dalla territorialità; da quelle che si originano forzatamente nei campi profughi a quelle che si formano intorno all’assistenzialismo e al volontariato, a quelle online: più che comunità, aggregazioni di individui atomizzati. Questa frammentazione e proliferazione degli ordini comunitari in verità è dovuta all’apparente crisi dello stato-nazione e al passaggio dalla fase solida della modernità a quella liquida, in cui la realtà della globalizzazione sembra aver sostituito il potere coesivo dello stato-nazione con quello seduttivo delle marche.

Queste ultime, ancor più che negli Anni Ottanta, assumono il ruolo di protagoniste dell’attuale scena in transito. Diventando relazionali e conferendo corporeità alle narrazioni e ai discorsi sull’identità scavalcano il concetto di lifestyle – identificazione del consumatore con un modo di vivere o stile di vita – e si predispongono a pensare come il consumatore, puntando alla sua completa adesione al proprio mindstyle e sistema di valori (Fiorani Eleonora, Abitare il Corpo: la Moda, pag.226). Il mondo mentale della marca la mette in partecipazione con gli individui, e contemporaneamente crea una forte complicità e intimità degli individui tra loro, che trovandosi a condividere i medesimi desideri, comportamenti, rituali e segni di riconoscimento, riformulano in questo modo il concetto di appartenenza, territorialità e identità.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.