“Lo spazio turistico è innanzitutto un’immagine. Immagine che si fanno i turisti e che danno gli organizzatori di vacanze. Immagine percepita con inquietudine a volte, sempre con sorpresa, dalle popolazioni autoctone. Immagine complessa, sogno, che compare su manifesti, guide, depliant, dipinti, libri, film. Immagine ed evocazione che i turisti portano con sé e trasmettono agli altri. Evocazioni, odori, suoni, sensazioni” (Miossec, in Minca Claudio, Spazi Effimeri, pag.49). L’aura dei luoghi sprigiona dalle loro immagini, da quel corredo di rappresentazioni e precomprensioni che fanno parte non solo della geografia individuale di ciascuno di noi, ma anche dello spazio simbolico che ci circonda. E il viaggio comincia nelle società di partenza, dove i turisti impalcano i loro sogni, sullo sfondo di un altrove sui cui convergono racconti del passato, del presente e desideri latenti dell’immaginario collettivo. All’immagine tradizionale dei luoghi – fissatasi lentamente nel corso dei secoli – oggi si sovrappone un complesso reticolo di immagini mediali che non solo muta il loro volto, ma che contribuisce a orientare le tendenze della moda e del consumo. Il lavoro promozionale degli operatori turistici in particolare assegna alle immagini dei luoghi delle valenze di natura commerciale, predisponendo delle offerte che incontrino i desiderata collettivi e promuovendo la costruzione di luoghi turistici, a cui poi richiamano attraverso strategie promozionali.

Photo: Afrah.

Il desiderio di autenticità, di esotismo, di fuga del turista si concretizza nei luoghi dell’offerta turistica, riducendo il viaggio verso l’altrove a una marcia incosciente che ha come unico obiettivo quello di verificare la bontà dell’immagine turistica o la corrispondenza tra immagine del luogo ed esperienza che ne deriva; precludendo in questo modo la comprensione di quei complessi processi di mutazione che derivano dall’incontro tra culture e delle culture particolari con quella globale. Il luogo rimane fuori dalla dialettica che interessa operatore e consumatore, la quale al contrario si fonda sulle performance dell’immagine pubblicitaria, che rimanda al luogo attraverso un mix di richiami rassicuranti e infarciti di stereotipi culturali. Su questi richiami esotici e rassicuranti si fondano le scelte del cliente e la competitività della destinazione all’interno del mercato turistico, attraversato anch’esso negli ultimi anni dalla tendenza alla personalizzazione dell’offerta di beni e servizi, che caratterizza le strategie dell’accumulazione flessibile e della produzione culturale postmoderna. L’estetica dell’effimero, che domina il quotidiano, sconfina anche nelle destinazioni turistiche, che ridisegnano la loro geografia a partire da quella moltitudine di immagini mediali che formano l’attuale visione del mondo.

Photo: Afrah.

La produzione di senso si perde così nell’escalation di informazioni che bombarda le nostre percezioni, per le quali rappresentazione e realtà sono già confuse, rimescolate l’una nell’altra. La rivoluzione telematica introduce nuovi dispositivi nelle nostre esperienze cognitive, comportando un’alterazione del nostro rapporto con la geografia, della nostra capacità di pensare e progettare il territorio e lo spazio sociale. L’implosione delle immagini in ogni dove mette in crisi il rapporto tra la rappresentazione e il suo referente reale, tra significante e significato, determinando il collasso di quella sequenza logica che dava ragione dell’investigazione scientifica moderna. Ad un mondo addomesticato ne segue uno sfuggente ed eccedente in immagini e rappresentazioni che, brillando di luce propria, divengono nuovi e ineffabili contesti, nuove realtà prive di memoria referenziale. Alla semplificazione succede l’iper-complessità della dematerializzazione, alle gerarchie una matrice senza centri né periferie e alla linearità della memoria la contemporaneità dei tempi e delle storie. Nell’iperspazio mediatico orbitano solo frammenti sottratti alla realtà – presente, passata, futura –, che non si lasciano ricordare se non a partire dal loro clamore. Queste forme vuote e prive di corporeità sono ciò che rimane di un mondo passante, in costante accelerazione e dominato dall’iperrealtà.

I territori, che assomigliano sempre di più alle immagini mediali e pubblicitarie che li ritraggono, si presentano allora come il prodotto non intenzionale dell’azione umana e il riflesso di una mediazione artificiale, confondendosi con le loro rappresentazioni, non rendendosi più disponibili ad un’investigazione d’insieme e svincolandosi da ogni pretesa di esaustività. In particolare la coesistenza di plurime geografie su uno stesso territorio dà ragione della discontinuità che segna il passaggio da una logica spaziale all’altra: dallo spazio costruito, ordinato e cartografato del moderno, a quello caotico, effimero e difficile da rappresentare del postmoderno che, formato e informato dalle reti telematiche, si ripensa all’insegna della spettacolarizzazione, della frammentazione, dell’autoreferenzialità, della connessione, della segregazione e dell’implosione. La ricostruzione di ambienti artificiali, che caratterizza l’evoluzione più recente del mercato turistico, tende a dare vita a microcosmi isolati fisicamente e completamente autosufficienti rispetto al territorio che li ospita, dove la mancanza di profondità, l’incoerenza dei segni, la lucentezza, la saturazione di stimoli, la riproduzione allegorica dell’Altro e dell’Altrove, la simulazione, l’euforia iconica e la ricostruzione iperrealistica di luoghi-simbolo della socialità, sono la manifestazione più compiuta del mutato spirito dell’epoca e della liquefazione delle distinzioni tra sociale, economico e culturale.

All’interno degli spazi del turismo – megamall, parchi tematici, grandi alberghi, resort e corridoi del trasporto globale – la logica postmoderna domina incontrastata: da un lato, dando ragione di una rottura col territorio circostante e i principi che lo orientano, dall’altro materializzando la possibilità di mondi alternativi rispetto a quello reale, privati delle sue insidie e ricostruiti a partire dal recupero di simbologie identitarie proprie degli spazi sociali tradizionali. Marc Augé li definisce nonluoghi, per la natura a-territoriale e il carattere non identitario che motivano il constante riferimento alla semantica del luogo e il richiamo evocativo a referenti immaginari o temi che fungono da riserve di senso necessarie per attirare la tourist gaze. Si tratta di spazi effimeri, universi conchiusi e autosufficienti che si presentano in superficie come un testo, come una facciata di immagini e una pellicola di luoghi comuni che appartengono all’immaginario collettivo del visitatore. Al loro interno tutto è pubblicità e citazione, e le uniche relazioni possibili sono anch’esse mediate da testi e sollecitazioni visive, nel contempo distanti e familiari. La riconoscibilità data dalla visibilità si traduce in garanzia di protezione e sicurezza, entrambe particolarmente gradite al turista che, straniero in ogni luogo, sente gravare su di sé il peso dell’incertezza dato dalla perdita di riferimenti stabili. Sintomatico non a caso è il senso di sollievo che si prova quando, proiettati in una situazione aliena, si ritrova nell’atmosfera ovattata di aeroporti, grandi alberghi internazionali o santuari del consumo, quel senso di sicurezza che l’ambiente esterno fa vacillare. Bisogno di protezione fisica e psicologica spiegano la particolare condizione di quarantena del turista che, muovendosi attraverso i nodi e le reti dello spazio globale, finisce per reiterare sempre il medesimo racconto di sé, escludendo l’esperienza dell’alterità e promuovendo il restringimento del suo spazio simbolico.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.