Una realtà del tutto peculiare in cui si gioca il delicato rapporto tra locale e globale, tra accoglienza ed emarginazione, ibridazioni di linguaggi e ri-territorializzazioni transitorie, è la Frontiera di Tijuana. Interzona che separa Stati Uniti e Messico, la frontiera è il luogo in cui si evidenzia un pronunciato fenomeno di destabilizzazione identitaria, in relazione al quale nozioni come abbandono e accesso, prendono il sopravvento su cittadinanza e nazione. In questa zona ribollente nasce il progetto triennale di InSide, patrocinato dal governo della Bassa California e dal dipartimento della cultura di Tijuana: una sfida culturale che trasforma l’abisso sociale e politico della frontiera in un’opportunità di confronto estetico.

Tijuana, México. Photo: Max Böhme.

InSide si espande nell’area compresa tra San Diego e Tijuana, dislocando nei punti nevralgici, gli interventi degli artisti invitati che, ricollegandosi alle componenti paesaggistiche, agli umori dei luoghi e alla condizione politica eccezionale, esprimono attraverso i lavori più svariati, il carattere radicale di una progettualità glocale (Macrì Teresa, Postculture, pag.185-186). Nel suo farsi temporaneo, la frontiera diviene lo spazio in cui si realizza una cittadinanza deterittorializzata e l’utopia di urbanità cosmopolita, che dura il tempo di un evento. Del resto, non è forse in una dimensione evenemenziale che la società globale ci ha abituato a vivere? Non è a partire dalla contrazione del tempo necessario a comunicare che gli incontri divengono brevi, intensi e plurimi? Non è la stessa metropoli ad essere un territorio in diaspora? Una configurazione instabile che si costruisce e decostruisce a partire dall’incontro di soggettività che hanno smarrito l’ancoraggio ai luoghi?

Mariachis working. Photo: Max Böhme.

Osserva a questo proposito Massimo Canevacci: “la differenza tra la metropoli ottocentesca (quella percorsa da Benjamin) e quelle contemporanee è che queste sono attraversate e incrociate costantemente da soggetti diasporici che non è possibile fermare con la forza né con le leggi. Non solo. Tali sempre nuove soggettività diasporiche innestano sincretismi inquieti e inquietanti. Una metropoli che non sappia farsi vivere e modificare dalle diaspore perturbanti regredisce a livello di città tradizionale, moderna” (Canevacci Massimo, Sincretismi, pag.76). La città infatti è una configurazione resistente, un modello di convivenza che si fonda sul principio della stanzialità e sulla possibilità di contatti limitati con l’esterno dovuti alla lentezza dei mezzi di trasporto. Al contrario la metropoli si sviluppa in relazione alla mobilità, all’intensificazione della vita nervosa e a una nuova concezione del tempo, dominata dall’accelerazione.

Los Angeles, California, USA. Photo: Max Böhme.

“Per intendere il flusso contemporaneo, si deve osservare come vero soggetto in movimento la nuova forma della metropoli comunicazionale. Una città-metropoli non più industrialista, modernista, progettata all’interno dell’opposizione centro-periferia, basata sul radicamento identitario del lavoro diviso in classi sociali omogenee, o della famiglia divisa in ruoli maschili-femminili stabili, cui la politica, la dialettica, il partito davano forma, sostanza e conflitti. Il centro produttivo urbano della fabbrica dava non solo il tasso del valore economico, ma anche ordine tramite la visibilità materiale del sociale, i legami forti e compatti come le identità. Da tempo il mix-ibrido di cultura, consumo, comunicazione e tecnologie ha spazzato via la centralità industrialista della vecchia città e persino della metropoli benjaminiana, che pur aveva visto per prima l’importanza della nascente comunicazione. Per questo la metropoli comunicazionale – nello stesso tempo tutta materiale e tutta immateriale – si è estesa lungo vaste aree di conurbamento ben precisate dal termine sprawl, la cui esposizione transnazionale e transterritoriale ne determina l’importanza non solo produttiva quanto anche percettiva, emotiva, valoriale. Insomma lo sprawl comunicazionale ha sensi plurimi e multisequenziali” (Canevacci Massimo, Sincretismi, pagg.76-77). La metropoli comunicazionale o diapsorica non è la “città degli eventi”, ma una nuova forma di urbanità che si costruisce proprio sul principio stesso dell’evento, dell’incontro breve e intenso, che per questo si configura come a-razionale e emotiva.

Los Angeles, California, USA. Photo: Max Böhme.

É intrinsecamente predisposta a una dimensione evenemenziale, sia essa globale, locale, collettiva o soggettiva. Alla luce di queste osservazioni anche la frontiera può esser considerata una metropoli in movimento, dove l’unica architettura materiale è quella del muro, eloquente metafora visiva della ritualità del passaggio, e le altre configurazioni architettoniche sono quelle effimere costruite dai corpi e dalle progettualità temporanee di soggetti in fuga che abitano transitando. In questo immenso territorio “in scorrimento” la comunicazione crossculturale viene ricondotta a una molteplicità di situazioni che occupano lo spazio-tempo di uno (InSide) o più eventi (gli incontri quotidiani). L’incontro-scontro con l’alterità si realizza su un piano estetico piuttosto che politico, anche se con questa affermazione non si vuole affatto sottrarre importanza alle ricadute politiche del fenomeno, in una dimensione che è propria della metropoli e non della città.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006. Riflessioni sullo spazio tra realtà, media e virtualità. Parte VII.