Quanta strada bisogna fare per realizzare un sogno? Sembra dirci quel ricorsivo viaggio notturno in motocicletta, quell’incedere fluido e apparentemente senza meta accompagnato dal ritmo della classica indiana. Quanta tempra bisogna maturare se di questo sogno non siamo proprietari fino in fondo? Sharad Nerulkar, il protagonista di The Disciple del regista indiano Chaitanya Tamhane, in concorso alla 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, vuole diventare un interprete di rilievo di una tradizione musicale millenaria. A noi appare come un perpetuo discepolo: del guru che accompagna col sitar nelle esibizioni, che segue nello studio con disciplina, ostinazione, dedizione e di cui si prende cura; del padre, allievo di una maestra molto discussa, perché non ha mai voluto essere registrata durante le sue esibizioni, capostipite di un’intera generazione di musicisti classici indiani, che lo ha rigidamente introdotto a questo percorso e di cui Sharad desidera mantenere viva la memoria anche col proprio lavoro di archivista. Neppure quando diventa a sua volta insegnante si libera facilmente di questa subordinazione psicologica. Una condizione estremamente vincolante, se paragonata a quella di altri aspiranti musicisti, la cui serenità interiore consente di apprendere più velocemente, essendo più creativi nel canto.

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Sharad invece si blocca, si chiude, prova invidia e non affronta positivamente il confronto, si libera attraverso la masturbazione in solitudine, perché non riesce neppure a dare una forma compiuta al suo desiderio per le donne. La sua tara è l’incombente timore del fallimento, che non lo abbandona mai. Eredità dell’educazione paterna? O ancor peggio, eredità paterna? Mancanza genetica di talento nonostante la passione e l’impegno? Questo conflitto si agita interiormente, cresce lungo tutto il film, rendendosi manifesto nelle espressioni contrite, venendo amplificato dal peso del giudizio materno. Sta buttando via la propria vita per un sogno che non realizzerà mai, che gli impedisce di costruirsi una famiglia, trovare un buon lavoro e avere un’esistenza normale? Forse addirittura felice? È una liberazione (e accettazione) molto lenta quella di Sharad, che passa anche attraverso la trasformazione della società indiana e della città di Mumbai. La musica sta cambiando, le tradizioni stanno perdendo la loro centralità, la modernizzazione avanza con i suoi seducenti idoli. Sharad non solo deve confrontarsi con l’emergere del pop, una musica che raccoglie consensi ma completamente svuotata di spiritualità, ma anche con la viralità del web, i nuovi volti che provengono dai talent, l’universo rutilante dell’esibizione sfacciata di fronte a cui si sente irrimediabilmente escluso e inadeguato.

The Disciple, still da video.

La sua è una posizione scomoda, quasi di reduce, costretto per necessità e volontà a continuare a credere in una tradizione musicale che rischia di scomparire. In questo senso la musica diventa una metafora del tempo che passa, della crisi delle identità all’interno della società indiana, della resistenza a lasciarsi contaminare dal moderno, della difficoltà di comprenderlo, della perdita del futuro di fronte all’oblio del passato, della perseveranza nel credere che la musica possa ancora elevare lo spirito, consentendogli di raggiungere l’Infinito. Sharad è l’emblema del fallimento (non diventerà mai un maestro né un’esponente di spicco di quella tradizione millenaria) dell’artista e della società tutta. Una figura dolorosa che incarna una forte presa di posizione politica dell’autore, che sceglie di raccontarci di un mondo che resiste ma che lentamente smette di essere ascoltato.

 

Biennale Cinema 2020.