Un’intervista assomiglia molto a un ritratto, non è un semplice scambio di informazioni, ma una conversazione intima capace di restituire il punto di vista dell’artista e la sua personalità. Esattamente come accadeva in Interview, il magazine fondato da Andy Warhol nel 1969. È così che la nostra chiacchierata con Oscar Powell ha trovato subito un punto di contatto, quando lui ha citato On Being an Artist di Michael Craig-Martin, artista e guida per molti altri artisti, da Damien Hirst a Sarah Lucas, suggerendo che “stare in silenzio è un errore, perchè significa affidare ad altre persone la responsabilità di parlare del proprio bisogno di esprimersi”. E ha continuato dicendo: “A me piace parlare della mia musica perchè mi aiuta a capirla e a re-immaginarla. Se lascio che siano altri a farlo, emergono sempre le solite etichette: industrial techno, no wave techno. Un’artista deve avere la possibilità di raccontare ciò in cui crede”.

Abbiamo incontrato Powell in Santeria, in occasione dell’ultimo appuntamento di C2CMLM, poco prima del suo dj-set dove ha suonato parte del nuovo materiale che sta sviluppando per XL e abbiamo scoperto qualcosa in più di lui, del percorso che lo ha portato dall’advertising alla musica e della sua idea di una musica capace di veicolare energie positive, prendendo anche le distanze da quella rigida interpretazione della club music, che fin troppo a lungo lo ha connotato.

V: Vorrei cominciare questa intervista dalla pubblicità, non dalla musica. Perchè penso che ogni esperienza nella vita lasci una traccia indelebile, che contribuisca, in maniera minore o maggiore, a orientare quello che facciamo. È così anche per te?

OP: La pubblicità per me è stata un lavoro. Fare musica è diverso, perchè è una cosa da cui sono completamente ossessionato. Però l’advertising mi ha sicuramente aiutato nel percorso che mi ha condotto fino a qui. Sono stato esposto ad un mondo abituato all’impatto comunicativo delle idee e ho imparato a relazionarmi con le persone, ragionando anche in termini di business, non solo di pura libertà espressiva.

V: Sì, penso che la pubblicità, il mondo della comunicazione in generale, siano una buona palestra per chi vuole riuscire a coniugare la ricerca artistica col raggiungimento di un pubblico che non sia esclusivamente di nicchia, anche attraverso un linguaggio, soprattutto visivo, che ironicamente gioca con gli stereotipi e gli immaginari. A questo proposito, quando ho visto il video del singolo Sylvester Stallone, ho subito pensato a Scanners, Arancia Meccanica, Essi Vivono, e mi è sembrato un modo “inconsueto” di comunicare, per un musicista da sempre legato alla club culture, per quanto l’etichetta fosse XL. Voglio dire: un video dove l’artista è protagonista e così dichiaratamente cinematografico nell’aspetto e nei riferimenti, è una scelta molto pop e che risente anche di logiche tipiche dell’advertising. Non credi?

OP: Onestamente penso si sia parlato troppo, forse io per primo l’ho fatto, di questo mio legame con la club music. Oggi la penso diversamente. Credo che un musicista debba essere in grado di sviluppare in autonomia il proprio punto di vista e di farlo evolvere, interrogandosi costantemente su quale debba essere il suo contributo alla musica. Non voglio limitarmi come artista, al contrario mi interessa capire dove voglio andare e dove posso arrivare. Ho amato molto il club ma non ho mai avuto paura del pop. Non intendo dire che voglio fare espressamente musica pop, ma che trovo stimolante l’idea di portare la mia musica a un pubblico più ampio. E per raggiungere questo risultato sono importanti i video tanto quanto gli interventi come quello di stampare su un gigantesco billboard la mail di Steve Albini, in occasione dell’uscita di Insomniac, per comunicare da un lato, la controversia relativa al campionamento della sua voce, dall’altro l’uscita del singolo con XL. Mi piace fare queste operazioni, perchè mi permette di capire meglio me stesso e le reazioni delle persone, trovando un bilanciamento tra le due posizioni.

https://www.youtube.com/watch?v=bamMBFc8AtU

V: Recentemente ti ho visto a fianco di Lorenzo Senni, dal set a sorpresa all’Unsound di Cracovia al successivo all’Adelaide. Se non sbaglio sarete anche al Sonar nel 2016. Che cosa vi ha spinto a sviluppare un progetto insieme, visto che siete stati definiti due dei più interessanti “decostruzionisti della club music”?

OP: Prima di tutto l’amicizia. Da quando ho dedicato la mia vita alla musica a tempo pieno, ho avuto l’opportunità di incontrare molte persone, provenienti da diversi paesi, con differenti background e capita spesso di ispirarsi a vicenda. L’ambiente in cui si circola è l’opposto rispetto a quello della pubblicità, soprattutto a Londra dove lavoravo io, dove sapevi esattamente che gente avresti incontrato. Io e Lorenzo ci conoscevamo da tempo e ci siamo trovati nello stesso momento ad aver bisogno di una distrazione dai nostri percorsi musicali individuali. La collaborazione è nata come una vacanza insomma. (Ride Ndr).

V: Tutto l’universo sonoro di Powell è piuttosto energetico. Che tipo di energia convoglia?

OP: La musica è ciò che mi interessa e mi diverte di più nella vita. Per cui io ho un approccio molto positivo, che non significa che tutto avvenga in maniera semplice, ma come non mi piace affrontare negativamente quello che considero il lavoro più bello al mondo, non mi interessano neanche le energie negative che la musica può veicolare. Anzi trovo che fare musica, dark, scura sia troppo facile e penso anche che spesso ci si avvicini alla musica in maniera seriosa. Io preferisco introdurre un principio di gioco e divertimento che non siano scontati. Trovo particolarmente stimolante cercare di produrre una musica, per così dire difficile, cioè non immediata come il pop, ma che possa piacere a mia madre.

V: Da un punto di vista espressivo, questa energia è la restituzione di che cosa?

OP: Dell’ispirazione, di come mi sento. Degli alti e bassi, delle sofferenze, dei momenti divertenti che passo con gli amici, di quelli brillanti, dove accade qualcosa. Credo che essere un artista significhi lavorare a tempo pieno, essere attento a ciò che accade dentro e intorno a noi.

V: Tra evocazione e narrazione, che strada scegli?

OP: Non ho mai pensato che la mia musica dovesse essere altro rispetto a sé stessa. Non mi interessa fare riferimento a qualcosa che appartiene al mondo reale, né evocare atmosfere o introdurre aspetti cinematici. La mia musica è una esplorazione del suono, sono letteralmente ossessionato dall’idea di creare il suono di Powell. Mentre compongo, mi piace scoprire come la mia mente segue la traccia che sto facendo e analogamente voglio che chi mi ascolta faccia lo stesso. Penso che la dance music debba coinvolgere la mente prima del corpo. Mi piace quando in testa le cose cliccano, e iniziano a funzionare, questa stessa scintilla deve avvenire in chi mi ascolta. Da lì devono partire l’incitamento, l’entusiasmo e la voglia di muoversi.

V: La musica come tutte le forme d’arte è un incontro tra chi crea e chi acquisisce. Il momento della fruizione però è sempre soggetto ad interpretazione. Va da sé che chi ascolta, spesso e volentieri, cerchi di definire ed etichettare l’esperienza che ha vissuto, per riuscire a comunicarla agli altri. Così gli artisti si ritrovano immersi nel controverso processo del labelling. Visto che si tratta di un’intervista, vorrei sapere da te, come descriveresti la tua musica.

OP: Come dicevo poco fa, io lavoro sulla ricerca del suono di Powell. Volendo rendere questo discorso più accessibile, posso dire che sono attratto dal groove e dal ritmo, ma non mi siedo ogni giorno a pensare come dovrebbe essere una buona traccia o come la descriverei, piuttosto ragiono su come deve suonare una traccia che mi piaccia. È un processo molto personale, forse per questo risulta criptico e allora dall’esterno si cerca di semplificarlo, ricorrendo a etichette, influenze o generi musicali. Ma sicuramente io non voglio che il mio nome venga associato a cose come industrial techno o no wave techno, perchè non riguardano la mia musica.

https://www.youtube.com/watch?v=Oem6gEEajZU

V: Qual è la tua concezione del tempo e dello spazio nella musica?

OP: È una domanda piuttosto profonda e difficile. Direi che sono sempre stato attratto dall’idea di accelerarlo e variarlo. Non mi piace la musica che rimane uguale a se stessa per periodi estesi, quindi ragionare sul tempo significa capire come si muove nella mia mente e forse, perchè sono profondamente insicuro, questo movimento cambia costantemente direzione. Sullo spazio invece ho le idee meno chiare. La prima cosa a cui molti riconducono il concetto di spazio in musica è sicuramente il reverbero. Ma a me non interessa creare l’illusione dello spazio.

V: Parliamo della Diagonal. Da quando è nata ad oggi, che direzione artistica volevi dare all’etichetta?

OP: In realtà non ho mai avuto un piano. Coinvolgo artisti che conosco, che mi piacciono e con cui ho instaurato prima di tutto un rapporto personale, di scambio e condivisione di musica e idee. Non abbiamo mai realizzato un’uscita di qualcuno che non conoscevano, è troppo facile, soprattutto oggi con internet. Se intercetto qualcuno che mi incuriosisce, prima di fare un disco insieme, cerco di conoscerlo. Tornando alla label, per me è un altro pezzo di divertimento, un altro modo per occuparmi di Powell e concentrami su ciò che mi piace fare.

V: Novità all’orizzonte?

OP: Sicuramente l’album. Il primo album è un percorso intrigante, perchè fino a poco tempo fa pensavo che non ne avrei mai fatto uno. Mentre ora ho cambiato opinione: ogni musicista ha fatto almeno un album, è un lavoro attraverso cui si ottiene molto più rispetto. Del resto riuscire a dare forma esattamente a ciò che hai in testa è una bella sfida.

 

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