Parco tematico de l’Italia in Miniatura. Rimini, 2009. Fotografia: Carlotta Petracci.

Se si accetta la definizione di “spazio come prodotto-produttore della società”, le conseguenze non sono di poco conto. Quelli che sono stati gli spazi istituiti dalla modernità vengono compresi nello spazio postmoderno. Lo spazio della Natura, teatro esterno, e lo spazio della mente, teatro interiore (De Kerckhove Derrick, in Tursi Antonio, Internet e il Barocco, pagg.115-116), subiscono un radicale rivolgimento: diventano nostra responsabilità, in qualità di soggettività connesse e non di individui isolati. Da oggetti di perversioni dello sguardo si trasformano in acquari in cui immergersi. Si parla così di fine del moderno, delle antinomie tra mente e natura, tra soggetto e oggetto, tra reale e virtuale, e del nostro nuovo mondo attraverso le tecnologie. Dove lo spazio come prodotto sociale si costituisce nella relazione tra spazio sensibile e mentale; mente e natura si partecipano (si pensi al giardino virtuale di Toyo Ito) cambiandosi significativamente. “Nel contesto della società, la natura, come lo spazio, è socialmente prodotta e riprodotta a dispetto della sua apparenza di oggettività e separazione. Lo spazio della natura è così riempito dalla politica e dall’ideologia, dalle relazioni di produzione, dalla possibilità di essere significativamente trasformato” (Soja Edward, Postmodern Geographies, pag.121).

Parco tematico de l’Italia in Miniatura. Rimini, 2009. Fotografia: Carlotta Petracci.

Il virtuale diviene un modo di essere fecondo e possente del reale, che schiude prospettive future e scava pozzi di senso al di sotto della presenza fisica immediata (Lévy Pierre, Il Virtuale, pag.2), penetrando la materia, rendendola viva e partecipante. La pelle del mondo cambia, come la pelle della nostra cultura, che recupera il corpo e la natura attraverso gli artefatti e la tecnologia, imparando lentamente a vivere a più dimensioni come quelle popolazioni che un tempo categorizzò come primitive, per le quali il corpo e la natura erano già la società. Philippe Descola a proposito della sua esperienza tra i popoli dell’Amazzonia ecuadoriana, parla infatti di “natura domestica”, per definire l’atteggiamento degli indios achuar nei confronti del mondo naturale che li circonda. Anzichè essere contrapposta al territorio abitato secondo la dicotomia natura-cultura, la foresta, è il luogo in cui tutte le relazioni di parentela e vicinato – alleanze e guerre tribali comprese – si giustificano e trovano un fondamento mitico; è il luogo che venendo investito da un processo di socializzazione, fa sì che la selva e gli esseri che ne fanno parte diventino parenti, ossia intervengano nei meccanismi vitali di scambio, come si trattasse di individui dotati di volontà e sentimenti. Gli esseri e gli oggetti che popolano l’ambiente vitale degli achuar si conformano alle regole della società. Osservazione quest’ultima che destituisce di senso la definizione di “naturali” assegnata a questi popoli, da parte di una prima antropologia ed etnologia (in La Cecla Franco, Jet-lag, pag.133).

Oggi – come osserva Eleonora Fiorani – le nuove tecnologie e il primato della comunicazione ci pongono di fronte “ad una riconfigurazione dei materiali, degli oggetti, del mondo, dei corpi, a una loro moltiplicazione, a una nuova cultura materiale in cui l’ambiente e la materia sono diventati sensibili, intelligenti, interattivi” (Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.202). Al mondo-macchina moderno segue il mondo-organismo contemporaneo in cui nano e bio-tecnologie presentandoci la materia sotto forma di artificiale sensibile, prospettano una nuova naturalità e un nuovo mondo, in cui l’uomo, destituitosi dalla sua centralità, diviene parte di un sistema da lui creato. Se si possa parlare di una sorta di neo-animismo tecnologico non è chiaro; sta di fatto che il constante riferimento in campo scientifico al concetto di organismo pone il problema del grande rimosso: il mondo come un tutto animato e partecipato, un mondo che non solo funziona, ma che incanta e comunica. Mentre nella modernità la concezione dell’oggettività scientifica aveva comportato la desacralizzazione della natura e il disincanto di fronte al mondo, ora questa stessa scienza, pur non parlando di sacralità, ci prospetta scenari inattesi di un nuovo vitalismo. Tecnologie e artefatti che diventano partner attivi e amichevoli. In realtà, si tratta di un mondo ancora lontano, verso cui la scienza muove solitaria, precludendo l’allineamento degli altri campi del sapere: dove ancora si discute in termini di perdita e salvaguardia del patrimonio naturale, di nostalgia e preoccupazione per un’improbabile sfida Uomo-Natura e di catastrofismo alla Blade Runner.

Parco tematico de l’Italia in Miniatura. Rimini, 2009. Fotografia: Carlotta Petracci.

Come osserva Zanetto: “l’imponenza dell’artificializzazione ci priva di un altro pilastro delle nostre interpretazioni: lo sfondo naturale dell’azione umana. La concezione tradizionale ci rappresenta come attori capaci di trasformare, forgiare, vincere una situazione trovata, altra, avversaria: una natura dotata di vita autonoma, una tavolozza su cui imprimere la nostra opera (territorio), nella quale scorgere soddisfatti la propria immagine. Oggi l’invadenza dell’ambiente umanizzato tende a sopprimere la condizione originaria, lo sfondo della nostra presenza; i segni dell’azione umana sono onnipresenti, gli angoli intatti sono macchie dotate di senso come “riserve”, non in sé stesse. Ma se ogni entità si definisce per differenza sullo sfondo su cui si colloca, quando il territorio ha perduto la natura esso si fa un tutto indistinto; poiché esso è specchio nel quale scorgere la nostra immagine, la geografia perde gran parte della sua capacità di autorappresentazione” (Zanetto Gabriele in Minca Claudio, Spazi Effimeri, pag.131). Il cambio di paradigma che la crisi delle categorie moderne reclama, non viene dunque facilmente metabolizzato, poiché esso reca con sé uno svuotamento non solo della distinzione tra soggetto e oggetto, ma anche tra fisica e metafisica. Allo stesso tempo va riconosciuto che l’immagine dell’uomo vitruviano – a cui corrisponde la modernità occidentale – che con le braccia spalancate è coestensivo e cospaziale al mondo (De Champeaux G., Sterckx S., in Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.63) non è più in grado di rappresentarci fedelmente, né tantomeno può riferire della complessità di un mondo esclusivamente corporeo.

Lo sguardo dall’esterno, quella distanza frutto di invenzione, grazie alla quale la nostra figura si stagliava su uno sfondo nitido – Natura o Altrove – ora viene frustrato dalla riduzione delle nostre dimensioni, dall’essere diventati parte di un sistema in cui non siamo più protagonisti. La crisi della rappresentazione geografica allora è la crisi del pensiero occidentale di fronte alla riflessione sulla modernità: che da un lato sollecita intuizioni e immaginazioni che la oltrepassano (e che in discreta parte provengono da esponenti di altre culture) e dall’altro rimane ancora vincolata alla logica dualista e alla dialettica lineare. Il perpetuarsi di una visione dicotomica in buona parte della cultura occidentale spiega l’approccio utilitaristico che regola la gestione delle “cose” ambientali e concepisce la natura in qualità di fondo d’impiego (Heidegger Martin, in Minca Claudio, Spazi Effimeri, pag.132): le assegna cioè una finitezza che somiglia tanto al destino economico e politico delle nazioni (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.138), con tutto il suo carico di ardore e turbamento. Da un lato abbiamo lo sviluppo illimitato e l’estensione planetaria dell’ecosistema umano; dall’altro lo spettro della crisi ambientale che alimenta paure e timori apocalittici e promuove il recupero di una quanto mai ambigua cultura ecologista, tra reminiscenze Anni Settanta e seduzioni orientali New Age, perfetta per diventare fenomeno di mercato, deputato a compensare la perdita subita e l’incapacità di autodefinizione dell’uomo contemporaneo.

Parco tematico de l’Italia in Miniatura. Rimini, 2009. Fotografia: Carlotta Petracci.

In realtà negli Anni Settanta, diversamente dalla contemporaneità, l’ecologia era stata il risultato di due forti derive: una economicista, che si mostrava preoccupata delle ricadute di una situazione di scarsità di risorse (la questione dei “limiti dello sviluppo”, con la quale cercano ancora oggi di terrorizzarci) e una più romantica e movimentista che vedeva nello sfruttamento della natura una specie di continuazione in chiave globale dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Per poi non tacere l’emergenza del disastro di Chernobyl, che ha dimostrato la nostra fragilità nei confronti dei sistemi industriali complessi e le spaventose conseguenze su scala planetaria di una tecnologia poco preoccupata degli effetti ambientali. Oggi la situazione è diversa; nonostante le inondazioni, lo tsunami, le trombe d’aria, il disastro di New Orleans, i terremoti, e tutti i vari tipi di inquinamento a cui siamo sottoposti, e a cui non possiamo sottrarci, ciò che sembra preoccupare di più è lo scenario non più tanto limpido e leggibile che ci scorre sotto gli occhi. La consapevolezza della perdita del centro, e il desiderio effimero e insanabile di ripristinarlo. Così la fuga negli spazi del turismo è d’obbligo: per continuare a consumare, a non pensare, a leggere e riconoscere il mondo solo nelle sue contenibili rappresentazioni, siano quelle generate dall’ecoturismo, dalla costruzione di giardini e parchi tematici, dalla riproduzione in vitro di micro ambienti completamente artificiali.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.  Parte II.