Oggi il termine geografia, non più coincidente con la cartografia moderna, viene declinato al plurale. Si parla di geografie reticolari che connettono nonluoghi – microcosmi, concept store, città a tema, centri commerciali, hotel, villaggi vacanze -, emozionali che interessano persone o gruppi, e diasporiche. Più in generale le si potrebbe chiamare “geografie della moda”: non solo perchè la moda si interfaccia con tutto, ma anche perché in stretta relazione con la modernità, ne definisce gli orizzonti del cambiamento e temporali. La moda rappresenta, anticipa, introietta e restituisce concetti e culture, rendendoli mode. Medium essa stessa si avvale di altri media per comunicare, spaziando dal cinema alla musica, dalla danza all’arte, dalla pubblicità ai videoclip, dall’architettura a internet, dalla tv alle riviste, ai mondi virtuali, ai luoghi di consumo e del turismo, alla letteratura, alle guide, ai corpi stessi. Il suo territorio è sconfinato e impossibile da mappare, se non per frammenti. Alessandra Luzio ne Il Vestito dell’Altro affronta il suo discorso, mettendola in relazione con gli albori del cinema, con la fase del muto, e con la formazione di potenti rappresentazioni dell’Altrove, in senso orientalista, per recuperare la definizione cara a Edward Said.

Still da video de Il Ladro di Bagdad, Raoul Walsh, 1926.

L’interesse per l’esotismo, per una versione dell’alterità che non riguarda le radici etniche bensì l’idea di lontano, nel senso di ignoto rispetto alla matrice culturale di appartenenza, è una prerogativa del cinema muto, che attinge a piene mani da immaginari confezionati dalla letteratura, dalla pittura e dalle nuove esperienze coloniali. Risalendo più indietro nel tempo, troviamo a monte della distinzione tra Oriente e Occidente, una convenzione arbitraria, che legge nei punti cardinali una sorta di pregiudizio geo-simbolico di stampo eurocentrico. L’Altrove assume in questo modo caratteristiche stereotipate di extra-ordinarietà, che vengono declinate in due direzioni: mostruosità e bellezza paradisiaca, minaccia e erotismo. Di questa concezione dicotomica è debitore anche il cinema, la cui nascita avviene nel periodo storico che coincide con l’imperialismo e che vede impegnate colonie e potenze coloniali in un processo di progressiva ricerca della propria identità, anche se con modalità differenti. In questa fase il cinema, in qualità di macchina significante, è elemento strategico sia nella creazione degli immaginari sia in relazione al confronto culturale, proponendo una visione dell’altro fondata sull’estraneità.

Poster de Il Figlio dello Sceicco, con Rodolfo Valentino, 1926.

Il processo di “vestizione” dell’Altro e dell’Altrove avviene secondo tre modalità: “l’orientalizzazione dell’Oriente”, “l’esperienza di conflitto in terra straniera” e “l’occidentalizzazione dell’Oriente”. Nel primo caso, che coincide con la prima fase del cinema muto, l’ispirazione deriva dalla tradizione favolistica preesistente (narrativa e figurativa) ed è funzionale alla presentazione di trame classiche e generi consolidati, a cui viene aggiunta la fantasmagoria cinematografica, che ne amplifica la meraviglia. In queste storie non ci si trova ancora di fronte a un vero e proprio incontro tra culture, poiché lo sguardo è esotico e legge nell’Oriente il luogo dell’alterità assoluta e idealizzata. In questo genere di film si verifica quella che Edward Said definisce, appunto, “orientalizzazione dell’Oriente”, identificando con questa espressione la tendenza dell’Occidente ad elaborare costrutti culturali artificiali per la creazione iconica di un Oriente personalizzato e consumabile. Tendenza che, pur avendo una continuità nella produzione cinematografica euro-occidentale, necessita di alcuni distinguo.

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Mentre infatti i film “primitivi” delineano una visione dell’Oriente piuttosto ingenua e superficiale, dove l’esotismo è riconducibile a caftani ricamati con stelle e ballerine velate con gioielli, diverso è il caso dell’utilizzo di stereotipi orientalisti nel cinema espressionista tedesco e nel modello americano di Raoul Walsh. Se si passano in rassegna le tematiche e gli elementi di stile dei film tedeschi del periodo compreso tra il 1919 e il 1926, difficilmente si pensa ad una matrice esotica come cifra caratterizzante. Atmosfere cupe, onirismi carichi di angoscia, scenografie oblique, spigolosità vertiginose, contrasti fotografici aggressivi, prospettive sghembe e irreali definiscono il connubio tra espressionismo e orientalismo, nei termini dell’estetica déco, molto lontana dalle forme sinuose dell’immaginario tradizionale. Diverso è l’approccio americano, che fornisce un’interpretazione dell’Oriente come Altro dalla vita quotidiana – luogo di esperienze alternative e di intrattenimento –. Una lettura influenzata dal sensazionalismo e dal fascino per l’avventura di una certa cinematografia popolare tra gli Anni Dieci e Venti. In ogni caso, con le debite differenze, l’operazione di stereotipizzazione comune ai due filoni va nella direzione dell’addomesticamento dell’Altro. Analogamente accade nelle pellicole che, alla luce delle esperienze coloniali, focalizzano l’attenzione sul confronto tra Oriente e Occidente attraverso il modello della conquista: una costruzione insieme culturale e politica.

https://www.youtube.com/watch?v=JoShIORLbuU

I protagonisti di queste trame sono generalmente bianchi occidentali che si trovano a vivere avventure più o meno drammatiche in un Altrove lontano, pericoloso e misterioso, tanto da venirne danneggiati irreparabilmente. Un Altrove inteso come antagonista e che viene presentato attraverso luoghi comuni di derivazione coloniale, ma anche attraverso ricostruzioni rassicuranti da studio, secondo i codici convenzionali dell’esotismo da cartolina, con lo scopo di non affrontare affatto posizioni e conflitti reali connessi all’imperialismo. Da questa semplificazione si procede verso una dimensione più minacciosa dell’Est: l’“occidentalizzazione dell’Oriente”, che caratterizza alcuni film in cui la figura dello straniero viene presentata in qualità di elemento seducente e destabilizzante di un ordine costituito. Il conflitto interculturale tra immigrazione e civilizzazione, in cui i pregiudizi e l’odio razziale sono la regola, affronta il tema della miscegenation, della mescolanza razziale, che si conclude sempre con l’accento posto sulla distinzione tra Est e Ovest, nei termini della superiorità del secondo rispetto al primo. Una retorica a cui siamo ancora oggi abituati, che fa parte di un approccio popolare sostenuto dai mass media, che fanno del sensazionalismo su questioni assai complesse, che riportano al centro delle discussioni lo schieramento Occidente-Oriente, nei termini Usa-Europa versus Medio Oriente, inducendo semplificazioni che vanno a formare un’opinione pubblica disattenta in merito alla complessità del mondo contemporaneo.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.  L’Altro Immaginato, Parte III.