Still da Les Misérables di Ladj Ly.

Nell’epoca in cui l’immagine del mondo diviene mondo attraverso l’immaterialità della comunicazione, la tradizionale rappresentazione geografica non è più un’evidenza. La cornice di senso fornita dai confini tra paesi, continenti e regioni, non esaurisce il groviglio di relazioni che interessa la molteplicità di locali connessi dalle reti globali. L’interdipendenza mondiale non determina l’eliminazione delle distanze, bensì una loro riconfigurazione sulla base di parametri di accesso. Una élite cosmopolita lascia consapevolmente alla deriva una cospicua parte di umanità che, segregata e immobilizzata all’interno di territori abbandonati, fa esperienza di nuove forme di esclusione e di disagio esistenziale. La condizione di marginalità indotta dall’essere considerati abitanti delle “periferie” del mondo in seno alle metropoli provoca spesso sentimenti violenti di rivolta che possono essere diretti verso l’interno o l’esterno delle comunità di appartenenza o del paese ospitante. Odio del sé, fondamentalismo, xenofobia, schizofrenia sono tra le piaghe che testimoniano della difficoltà di resistere al vuoto dello Stato e all’invisibilità del potere globale, nel passaggio dalla fase solida a quella liquida della modernità (Zygmunt Bauman). Le cerimonie massmediatiche diventano allora l’unica forma di collante per una società divisa, per un paese disposto ad unirsi esclusivamente in nome della condivisione di un’emozione. Alla 72esima edizione del Festival di Cannes Ladj Ly con Les Misérables suggerisce queste riflessioni, proprio là dove nel 1995 Mathieu Kassovitz aveva vinto il premio per la miglior regia per La Haine. I due film hanno infatti delle similitudini. È lo stesso Ladj Ly a dichiarare questa relazione, omaggiandola anche nel volo sopra i palazzi della banlieue, a cui mancano però la poesia, l’atmosfera sonnolenta e sognante del suo predecessore.

Still da Les Misérables di Ladj Ly.

Les Misérables non è La Haine. Non lo è per scrittura, regia, freschezza, ma soprattutto perché le condizioni all’interno delle banlieue sono profondamente cambiate. Non bisogna dimenticare infatti che ogni opera va analizzata a partire da una precisa prospettiva storica, evitando generalizzazioni. Il passato coloniale della Francia è un elemento essenziale che, seppure taciuto, può conferire originalità di lettura ad una storia che vede contrapposti polizia e comunità, ordine e caos. La scelta di Ladj Ly di mettere al centro della contesa e nel momento chiave il personaggio di Gwada (Djibril Zonga), poliziotto di origini africane, appare indicativa, e non solo perché ricalca gli stereotipi dell’urban thriller. È a Gwada che parte il colpo che sfigura Issa, il ragazzino di colore che ha sottratto il cucciolo di leone ai gitani, non a Stéphane (Damien Bonnard), gli occhi con cui Noi seguiamo la storia e attraverso cui la interpretiamo a partire dalla Nostra visione della Storia, non a Chris (Alex Manenti) che ricalca il cliché del poliziotto bianco, sessista, razzista, disposto a operare al di fuori della legge per mantenere l’ordine. Il caso di coscienza – recuperare la scheda che contiene la memoria digitale della scena, ripresa per sbaglio da un drone pilotato dal ragazzino nerd di turno, anche lui di colore – si trasforma in un interrogativo sull’appartenenza. Non si tratta solo di analizzare le dinamiche che all’interno di una società multiculturale spingono costantemente, per motivazioni spesso futili e fraintendimenti, all’esplosione del conflitto, generando quella dialettica esasperante, soprattutto se rapportata alla vita reale, tra tensione e rilassamento, che alla fine del film quando la violenza esplode davvero fa tirare allo spettatore un sospiro di sollievo, bensì di domandarsi che cosa significhi avere origini africane in Francia.

Still da Les Misérables di Ladj Ly.

Quanti conflitti rappresenta o può avere interiorizzato Gwada? Chi è: un poliziotto, un cittadino francese – come vorrebbero i festeggiamenti iniziali in seguito alla vittoria della Coppa del Mondo – una delle innumerevoli identità diasporiche figlie del colonialismo, oppure delle nuove migrazioni globali? Perché la scelta che deve compiere è più sofferta di quella di Stéphane, per il quale confessare è un atto dovuto? La risposta potrebbe essere che per Gwada vestire i panni del poliziotto non significa semplicemente essere il garante dell’ordine, ma essere francese. Forse, nel lento e progressivo processo di integrazione, rappresenta un compimento, l’idea di essere più francese degli altri. Avere scelto di sostituire all’incertezza della disidentificazione, della multiculturalità, l’incorporazione di un’identità senza compromessi, consegnatagli dalla Legge, nonostante viva a Montfermeil (lo stesso quartiere dove Victor Hugo aveva ambientato I Miserabili) nelle medesime condizioni delle comunità che lo popolano. Quando Stéphane gli consegna la memory card, Ladj Ly attraverso il suo personaggio pare interrogare se stesso (e probabilmente pure noi). È davvero così facile compiere la scelta giusta? L’esplosione finale di violenza da parte dei bambini, trasformatisi in rabbiosi guerrieri urbani, non può essere considerata esclusivamente come la vendetta che chiude il cerchio dei soprusi subiti (Issa sfregiato da un colpo d’arma da fuoco e ridicolizzato nella gabbia del leone, dal gitano che aveva derubato), è in un certo senso anche un affronto a Gwada, che pare aver dimenticato le sue origini, venendo meno alla denuncia dell’accaduto.

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In realtà il film lascia sospesa questa scelta, o l’ipotesi di un successivo cambio di rotta, perché la dura lezione che Ladj Ly ci obbliga a prendere in considerazione è che in certi contesti non c’è tempo e spazio per la riflessione. Ogni azione determina una reazione, solo nel migliore dei casi, uguale e contraria. A questo proposito il finale è molto interessante, perché Ladj Ly mettendo in mano a Issa, bambino, una molotov, quindi in un’età in cui può ancora scegliere se macchiarsi o no (impossibile, anche se si tratta di un film completamente differente, non ricordarsi del finale de Il nastro bianco di Michael Haneke, dove l’autore austriaco ci mette di fronte ad un’infanzia colpevole da cui germoglierà il nazismo), rallentando e fermando quell’azione, lascia a noi spettatori, nella nostra variegata ed estrema differenza, la scelta. Vogliamo salvarci o siamo disposti a farci carico del peso e delle conseguenze dell’odio?

 

Recensione pubblicata su Artribune.