La materia cambia. La pelle delle cose, degli oggetti, dei corpi, investiti della liquidità del cyberspazio torna a sentire, palpitare, vibrare, a vivere una nuova vita organica e comunicativa. La tecnologia altera l’aspetto e la natura del mondo, cosicché si moltiplicano nelle città pareti-schermi, giardini virtuali, ambienti di luce, paesaggi sonori, che ridisegnano i nuovi modi dell’abitare, che si fa leggero, impalpabile, trasparente. Sempre più orientato alla pubblicità. La pervasività della diffusione dei Media Building lo dimostra. In essi si intrecciano e rendono visibili tanto i nuovi materiali e i percorsi progettuali da essi avviati, quanto le nuove tecnologie e le trasformazioni profonde da esse indotte circa i modi di pensare lo spazio e il suo aspetto. Le loro facciate sono mutevoli: abbagliano, pubblicizzano, moltiplicano i punti di vista, nascondono e la loro struttura è disseminata di sofisticati artifici che gli permettono di dialogare con l’ambiente e con l’intorno; di soddisfare la domanda pressante di informazioni della società della comunicazione – in cui i media sono destinati a influenzare lo sviluppo e la configurazione dei centri urbani e delle strutture degli edifici -; di tradurre visivamente l’interattività e la mobilità della scena globale. La perdita di peso del reale. Effimero, sconfinato, astratto, animato.

Tower of the Winds, Toyo Ito. Photo: El Croquis.

L’estetica dell’immateriale lavora a pieno ciclo, trasformando ogni superficie in supporto per l’informazione, che configura ambienti immersivi e dialogici, in cui i confini tra spazio fisico e spazio della mente implodono e si fanno confusi. L’architettura diviene estensione corporea e epidermide interattiva (come nel caso dell’Istituto del Mondo Arabo progettato da Jean Nouvel, dove simboli geometrici che rimandano ai diagrammi traforati della tradizione araba diventano una gigantesca griglia di otturatori di alluminio che si aprono e si chiudono a seconda della luce proveniente dall’esterno e del lavoro delle fotocellule che controllano l’illuminazione interna). Hyper-achitettura, architettura liquida e della trasparenza, in cui il focus è su proiezione, mutazione, simulazione, teatralità, partecipazione. Nel paesaggio si moltiplicano i messaggi, gli input, i feedback e la città diviene un immenso nonluogo, corre sulle reti. È dovunque, qualunque, è essa stessa virtuale. Sogno ad occhi aperti. Incubo notturno. Come scrive Marcos Novak: “l’architettura liquida è un’architettura che respira e pulsa. L’architettura liquida è un’architettura la cui forma è contingente agli interessi dello spettatore; è un’architettura che si apre per accogliermi e si chiude per difendermi; è un’architettura senza porte né corridoi, in cui la stanza successiva è sempre dove mi occorre che sia e ciò che mi occorre che sia. L’architettura liquida produce città liquide, città che cambiano al cambiare di un valore, in cui visitatori con retroterra diversi vedono paesaggi diversi, in cui i dintorni cambiano con le idee in comune, e si sviluppano quando le idee maturano oppure si dissolvono” (Novak Marcos, in Benedikt Michael, Cyberspace, pag. 260-261).

Toyo Ito, Sendai Mediatheque, Miyagi, 1995-2001. Photo: Naoya Hatakeyama. 

Questa liquidità risponde alle esigenze dell’attuale modernità, caratterizzata da sostanze senza forma propria, che non si fissano nello spazio, nel tempo ma viaggiano con estrema facilità: “scorrono”, “traboccano”, “si spargono”, “filtrano”, “tracimano”, “colano”, “gocciolano”, avvolgono, scivolano, languono, evaporano. Sono informazioni, immagini, suoni che vengono captati dalle tecnologie – che ci portiamo appresso, che vestiamo, che stanno dentro e fuori le costruzioni di mattoni e le interconnettono tra loro – e dall’architettura stessa: “design dell’aria”, come la definisce Toyo Ito. Alcuni esempi sono: La Torre dei Venti (Toyo Ito, 1986) e La Mediateca di Sendai (Toyo Ito, 2001): progetti dell’architetto giapponese, per il quale leggerezza e smaterializzazione assolvono la funzione di emancipazione dal sistema costruttivo tradizionale e promuovono l’integrazione tra attività umana e sistema dello spazio delle reti: luogo dei flussi che influenza e trasforma la pelle degli edifici, la loro struttura e abitabilità, e sollecita l’esplorazione delle superfici stesse: senzienti, reattive, informative. La Torre dei Venti è infatti un gigantesco totem urbano e un edificio mediale che materializza l’invisibile.

KPN Telecom Office Tower. Rotterdam, Netherlands. Progetto: Renzo Piano Building Workshop. 

Trasforma, grazie alla sua membrana di pannelli specchianti e lampade, il rumore e l’intensità in esperienze percettive visibili, dimostrando come la velocità delle comunicazioni e il caos informativo necessitino di essere intercettati e inviati come spettacoli da un’architettura che non rappresenta più l’immutabilità ma il movimento. La metamorfosi. Quella che unisce in un unico sistema tecnologia e natura, dando luogo a dispositivi architettonici in grado di memorizzare ed emettere informazioni, e modificarsi in rapporto all’ambiente, divenendo veri e propri corpi viventi, con cui instaurare relazioni emozionali e da navigare, attraversare, manipolare (da cui essere manipolati) vestiti dell’”abito mediale” [“solo se si indossa l’abito mediale ci si può insediare nella natura virtuale della giungla mediale” (Ito Toyo, in Maffei Andrea, in Tursi Antonio, Internet e il Barocco, pag.123)]. Così è nella Mediateca di Sendai: opera aperta al cambiamento, edificio incompiuto, senza stanze né funzioni definite. Architettura che traduce nella sua struttura la pervasività del flusso informatico, la sua irregolarità, dinamicità, precarietà, caratterizzata da facciate evanescenti, che invitano a entrare e a immergersi come in un acquario (altra metafora di visualizzazione dell’era elettronica che Ito propone accanto a quella del giardino), alla ricerca di luoghi da scoprire e ‘da fare’, e che ‘si fanno’ al passaggio, la mediateca è un grande e perenne “lavoro in corso” dove impronte e presenze non si cancellano, ma cambiano rimanendo nella memoria.

Blur Building, Exposition Pavilion: Swiss Expo. Lake Neuchatel, Yverdon-les-Bains, Switzerland, 2002. Architects: Diller Scofidio+Renfro. Photo: Diller Scofidio+Renfro.

La sua flessibilità è quella del flusso marino e il mare è la metafora cara a Ito per definire il mutamento incessante di forma dell’era elettronica e della sua fruibilità. Acquatica, nebulare, immateriale. Le pareti vengono meno e le architetture possono avere anche solo la forma e il materiale del suono e della luce, consentendo un abitare mobile contraddistinto dalla presenza-assenza della corporeità (con riferimento al Blur Building, padiglione espositivo realizzato da Elizabeth Diller & Ricardo Scofidio sul lago di Neuchâtel per l’Expo del 2002 in Svizzera, costituito da una nuvola d’acqua vaporizzata). Con la riconfigurazione degli spazi in relazione alla comunicazione la città materiale e la città rete cominciano a costituire un tutt’uno. La città diventa nodo della rete globale che la trasforma in profondità, moltiplicando gli spazi e rendendoli fluidi. L’artificiale tende alle superfici interattive, sensibili alla domanda, caratterizzate dalla rappresentazione teatrale e i muri divengono muri-immagine, comunicativi, potenziati da schermi interattivi e giganteschi billboard elettronici (è il caso della KPN Telecom Tower a Rotterdam, progettata da Renzo Piano, col suo schermo pubblicitario).

Torre Agbar, Barcellona. Photo: Ateliers Jean Nouvel.

Tutto l’ambiente viene investito da fenomeni di virtualizzazione, in relazione ai quali le immagini contano più dei supporti sui quali sono proiettate e gli spazi si fanno sempre più effimeri, senza storia né memoria. La trasparenza moderna cede il passo alla simulazione, che rinvia all’evenemenzialità e alla perdita del senso del luogo, e il traslucido irrompe come fenomeno, in grado di mantenere le molteplici potenzialità e la complessità del caos. Il glittering delle superfici è illusorietà e seduzione, un surplus di emozioni connesso allo sfumarsi dei confini e all’intravedere il molteplice delle cose nel loro apparire e nascondersi. Di ciò è testimonianza la Torre Agbar progettata da Jean Nouvel a Barcellona (Fiorani Eleonora, Tutto da Capo, n.3, pag.21-22), che non è né torre né grattacielo, ma estrusione unica, che configura una massa fluida che sembra perforare il suolo come un geyser a pressione permanente e dosata. Non è il simbolo della città verticale, ma piuttosto di quella che si estende, corre sulle reti e si estroflette manifestando l’incerto dei tempi e della terra, da cui proviene, ma di cui non ha il peso. La sua materia si legge in profondità, al di sotto della superficie liscia e continua, ed è vibrante, colorata, luminosa, sfumata, elastica, plastica. È una materia alla quale si pensa diversamente. Suono. Luce. Poiché il web ha indotto trasformazioni circa il modo di pensare lo spazio e con esso l’approccio all’architettura e all’urbanistica. Ora supporti, che acquisiscono il fascino della sensazione, come traduzione esteriore di ciò che si avvicenda all’interno e risposta agli stimoli ambientali.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.